Focus: Svanire

Mi ricordo. Anzi, no

Cervello
di Rita Bugliosi

Elvira De Leonibus dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Cnr spiega come e perché non tutto ciò che viviamo, leggiamo o studiamo viene immagazzinato dalla nostra memoria. All’origine delle dimenticanze ci sono meccanismi che coinvolgono il cervello di tutti, non solo di chi è affetto da patologie che causano deficit mnemonici

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Nel nostro Paese, data l’età media piuttosto elevata, aumentano le patologie correlate all’invecchiamento. Tra queste, quelle legate alla perdita di memoria, quali la demenza senile o la malattia di Alzheimer, sono indubbiamente in crescita, tanto da prospettarsi sempre più come una vera e propria emergenza sanitaria. Ma, al di là della scomparsa dei ricordi provocata da patologie specifiche che alterano il funzionamento del cervello, a tutti è capitato di dimenticare qualcosa.

Si tratta spesso di cose banali come il compleanno di un amico, i particolari di qualche evento vissuto o qualcosa da acquistare quando si va a fare la spesa. In altri casi, l'occasionale amnesia può provocare un dramma com'è capitato ancora di recente, con la morte di un bambino dimenticato in macchina: dieci i casi simili, in Italia, negli ultimi 25 anni. Perché si determina questo fenomeno e cosa lo provoca?  “Per capire come il nostro cervello memorizza o dimentica proviamo a pensarlo come fosse una tabula rasa. In questo caso, il processo di formazione delle nuove memorie può essere immaginato come totalmente passivo, dipendente cioè dalle caratteristiche dello stimolo. Le informazioni, superato il setaccio sensoriale, possono essere memorizzate e utilizzate nel breve intervallo di tempo e poi dimenticate per sempre (come la lista della spesa) oppure essere conservate per giorni, ore, anni o decenni”, spiega Elvira De Leonibus dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare (Ibbc) del Cnr. “La ripetizione dell’esperienza e dei concetti, favorendo il processo di formazione di nuovi contatti sinaptici all’interno della struttura cerebrale chiamata ippocampo, in cui i nuovi ricordi vengono immagazzinati, è la determinante chiave per stabilire cosa, come e per quanto tempo verrà memorizzato. Tale processo richiede un paio d'ore e può essere favorito, oltre che dalla reiterazione, da altri fattori quali ad esempio il sonno”.

In realtà, però, non tutte le informazioni vengono inviate alla memoria a lungo termine e il nostro cervello non si comporta come una tabula rasa. E, anche se non può scegliere di non memorizzare, è possibile decidere con cosa si vuole riempire la memoria. “In un esperimento condotto su soggetti umani a cui venivano presentate coppie di parole e si chiedeva di ricordare o non ricordare la parola associata, si è notato che il ricordo delle parole associate a quelle da ricordare era molto più presente. Quindi, oltre all’oblio come processo passivo di decadimento spontaneo, abbiamo a disposizione anche un processo consapevole di inibizione di ciò che vogliamo ricordare”, continua la ricercatrice.

Dimenticare

A favorire la permanenza della memoria, contrastandone la sparizione, contribuiscono poi le emozioni. “Determinano il rilascio di sostanze chimiche che facilitano la formazione dei ricordi, in particolare quelli di eventi negativi, i quali rilasciano ormoni che, mentre attivano una risposta immediata per fronteggiare lo stimolo stressante, aiutano a fissare i ricordi a quel preciso momento”, precisa De Leonibus. “Non tutti i traumi sono però consapevolmente ricordati, perché vengono memorizzati in parallelo dal cervello sia in circuiti neurali deputati alla memoria consapevole (ippocampo), sia in circuiti deputati alla memoria implicita (nuclei sottocorticali), come sequenza di azioni e gesti che a nostra insaputa ci proteggono da esperienze simili". Questo meccanismo produce nell’uomo effetti interessanti: "Per esempio, la maggior parte di noi sa dove si trovava l'11 settembre del 2001, giorno dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, e può dire cosa stava facendo in quel momento. Eppure l'evento traumatico si stava verificando a migliaia di chilometri di distanza da noi e, soprattutto, non stavamo facendo nulla che vi fosse correlato. Il nostro cervello ha semplicemente provato paura guardando le immagini e questo è un chiaro segnale che qualcosa di importante sta accadendo e deve essere ricordato. La situazione ha quindi indotto il cervello a produrre le sostanze chimiche atte a fissare rapidamente nella memoria eventi biologicamente rilevanti, sostanze legate anche ai ricordi della vita quotidiana ordinaria”.

A favorire la permanenza di alcuni ricordi sono infine gli schemi cognitivi, ossia griglie attraverso cui percepiamo la realtà e filtriamo i ricordi, che ci inducono a tenere a mente solo i contenuti che li confermano. “Questo meccanismo permette di memorizzare una maggiore quantità di informazioni con più velocità, in quanto il materiale viene immagazzinato in forma organizzata. Per esempio, una volta conosciuti i numeri e l'addizione, invece di memorizzare il numero 61543 come una stringa di 5 elementi separati, possiamo memorizzarlo come una serie decrescente di numeri da 6 a 3, con il numero 1 in seconda posizione. In questo modo dobbiamo ricordare solo 2 elementi (il 6 e l'1), anziché 5”, conclude l’esperta.

Fonte: Elvira De Leonibus, Istituto di biochimica e biologia cellulare, elvira.deleonibus@cnr.it

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