Pecore, dal presepe al laboratorio
Con i pastori, l’angelo e i magi sulla scena del presepe non possono mancare questi animali, carichi di valenze simboliche. Ma se per lungo tempo sono stati simbolo di purezza e innocenza, oggi è proprio da loro che arrivano i segnali del degrado ambientale
Nel presepe sono le predilette dai bambini e, assieme ai pastori, non possono mancare. In realtà, Benedetto XVI (L’infanzia di Gesù, Rizzoli) ha ricordato come nei Vangeli non si parli mai di bestie presenti nella natività: nonostante questo, le pecore appaiono quasi sempre. Se Cristo è pastore di anime (Pasce oves meas), le pecore e gli agnelli sono immediata allegoria dei fedeli e degli apostoli (come pecore in mezzo ai lupi, Mt. 10, 16).
Al di là della simbologia religiosa, le pecore sono una presenza importante dell'economia e della storia italiana. L’Italia, oltre che di poeti, di artisti, di eroi, è stata popolo di pastori: tra Abruzzo, Molise, Umbria, Basilicata, Campania e Puglia si snoda un reticolo di vasti e antichissimi tratturi, che decreti ministeriali e leggi regionali hanno cercato invano di difendere. Rifiuti accumulati un po’ ovunque, falde acquifere inquinate, sostanze pericolose disperse nell’ambiente rischiano di corrompere per sempre questo paesaggio unico.
Le pecore sono anche ottimi indicatori ambientali, perché si muovono sul territorio brucando e accumulano così nei loro tessuti sostanze inquinanti che prelevano direttamente dall’ambiente. Un aspetto che emerge chiaramente nel volume 'Se fossi una pecora verrei abbattuta?’ (Scienza Express edizioni, 2011) curato da Liliana Cori dell'Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa. “Negli ultimi anni le pecore sono arrivate in prima pagina sui giornali. Quelle di Taranto sono state abbattute: troppe diossine”, spiega Cori. “In Sardegna, in alcune zone sono risultate contaminate dalle radioattività di certe aree confinanti ai poligoni militari. In Campania, le pecore cresciute attorno alle vecchie fabbriche chimiche di Acerra hanno generato agnelli deformi e presentano livelli elevati di inquinanti nel latte”.
Veleni che attraverso la catena alimentare arrivano fino a noi. In Italia la prima legge che identificava 16 siti inquinati di interesse nazionale è del 1998 ma da allora i siti sono passati prima a 57, per scendere a 39 nel 2013. Oltre ai siti contaminati di interesse nazionale ci sono però quelli di interesse regionale, molto più numerosi. “Sono 12.600 quelli censiti da Federambiente nel 2010 e Legambiente calcola che sarebbe da decontaminare il 3% del territorio nazionale. Un’area pari alla superficie dell’Umbria”, continua la ricercatrice.
Le istituzioni sul territorio hanno comunque dato vita, negli ultimi anni, a diversi programmi di monitoraggio ambientale. “In Campania si è svolto lo studio Sebiorec, per verificare la presenza di inquinanti nel sangue e nel latte materno, in un’area molto vasta che comprende la 'Terra dei fuochi’, e in quella zona in effetti si sono trovate diossine che non avrebbero nessun motivo di essere presenti”, aggiunge Cori. “In Sicilia lo studio Sebiomag ha verificato la presenza di diversi inquinanti nei tessuti degli abitanti dell’area industriale di Gela. Nel Lazio, si è sottoposta a monitoraggio la popolazione della Valle del Sacco. Analoghe analisi dei tessuti degli abitanti si sono realizzate a Brescia e a Taranto.
Le pecore, protagoniste del biomonitoraggio negli anni passati, sono ora passate in secondo piano: oggi si studia direttamente la popolazione. “Nell’Unione Europea si è sviluppata l’iniziativa Cophes (Consortium to Perform Human Biomonitoring on a European Scale). Molti progetti finanziati dalla Direzione ambiente della Commissione Europea hanno incluso il biomonitoraggio umano: nel progetto Life Persuaded, coordinato dall’Istituto superiore di sanità, l’Ifc-Cnr analizza le urine di 2.000 coppie madre-bambino per misurare l’esposizione a ftalati e bisfenolo A”, continua la ricercatrice. “Altri studi vanno a cercare invece quelli che si chiamano i 'segnali precoci’ delle malattie, rilevabili con analisi diverse. Lo studio Sepias, Studio epidemiologico esposizione ad arsenico, ha analizzato il sangue di alcune centinaia di persone che vivono in aree inquinate per cercare metalli e segnali di modifiche genetiche, che possono rivelare la predisposizione a sviluppare malattie”.
Claudio Barchesi
Fonte: Liliana Cori, Istituto di fisiologia clinica, Pisa , email liliana.cori@ifc.cnr.it -