Chiamiamoli anche cobot
La parola robot è uno dei due soli termini che l'italiano ha mutuato da una lingua slava: il cèco. È comparsa per la prima volta in un'opera teatrale dello scrittore praghese Karel Capek (1890-1938). Tratta dal sostantivo “robota”, “lavoro forzato”, si è diffusa a livello internazionale. Il termine cobot è invece comparso per la prima volta nel 1996 per indicare macchine basate sull'affiancamento al lavoratore. Ne parliamo con Emiliano Degl'Innocenti e Pär Larson dell'Istituto Opera del vocabolario italiano del Cnr
Oggi si parla e scrive tanto di robotica, è opportuno allora forse chiarire l'origine di questo termine. La parola italiana robot si rivela un'autentica curiosità etimologica per linguisti e filologi. “Si tratta di uno dei soli due termini che la nostra lingua abbia mutuato da un idioma slavo che con l'italiano ha avuto ben poco da spartire: il ceco”, spiega Par Larson, dirigente di ricerca presso l'Istitito Opera del vocabolario italiano (Ovi). “Il più antico è il nome di un'arma, la pistola, termine giunto in Italia per vie tortuose e attraverso il combinato filtro del tedesco e del francese. Invece la parola 'robot' è nata nel periodo di pace tra le due Guerre mondiali, nel 1920. È comparsa per la prima volta a stampa in un'opera teatrale di carattere fantascientifico dello scrittore praghese Karel Capek (1890-1938), ambientata in una fabbrica dedicata alla produzione di umanoidi sintetici e intitolata, come lo stesso dramma, 'Rossum's Universal Robots'. L'ultima parola, pronunciata robot e tratta dal sostantivo ceco robota nell'accezione 'lavoro forzato', è stata coniata dal fratello di Karel, il pittore e scrittore Josef Capek (1887-1945). Nel dramma, la produzione degli operai-schiavi sfrutta una formula biochimica sviluppata da uno scienziato (chiamato appunto Rossum) e messa in pratica dal nipote di questi, un imprenditore senza scrupoli. Come c'era da aspettarsi, la situazione - che preannuncia classici del cinema come Blade Runner o Terminator - precipita, convertendosi in poco tempo in una rivolta planetaria degli operai-schiavi, con l'annientamento del genere umano”.
La parola robot inizia a diffondersi a livello internazionale proprio con la traduzione del dramma di Capek e nelle principali lingue di cultura. La traduzione italiana dell'opera è del 1929 ma con una diversa pronuncia. “Come spesso accade, la nuova parola finisce per soggiacere alle regole ortoepiche della lingua straniera meglio nota in Italia, il francese, ed è così che, alla stregua di termini come sabot (zoccolo) e rabot (pialla), si impone l'impropria pronuncia robò”, sottolinea Larson.
Nel mondo reale c'è voluto più tempo per allinearsi con le innovazioni e il progresso tecnologico descritti dalla letteratura fantascientifica, ma con lo sviluppo industriale e l'uso di macchine programmabili con compiti complessi e ripetitivi anche la terminologia tecnica usata è cambiata. “Quando l'industria manifatturiera inizia ad affidare certi compiti, addirittura pericolosi, a macchine programmabili appositamente create, queste vengono battezzate robot industriali. E quando gli effetti del progresso tecnologico industriale raggiungono le abitazioni, anzi la cucina del cittadino medio, con l'introduzione di una generazione di elettrodomestici di dimensioni relativamente ridotte ma capaci di svolgere indipendentemente tutta una serie di compiti, questi vengono chiamati robot da cucina”.
Larson fa notare come in altri idiomi la parola robot abbia assunto ulteriori e interessanti significati, ricchi di sfumature. “In svedese, per esempio, viene definito robot anche un missile guidato, dotato di motore a reazione. In inglese, il termine è entrato, seppur fugacemente, anche nel linguaggio tecnico dell'informatica per designare un agente intelligente (software agent), un programma in grado di eseguire in modo autonomo operazioni in Internet. Tuttavia questa denominazione colloquiale è stata in poco tempo ridotta, come spesso accade nel proteiforme gergo tecnico informatico, alla sola sillaba finale: bot”.
Con i più recenti sviluppi della robotica collaborativa, era inevitabile la new entry anche del lemma "cobot". La parola è usata per la prima volta in un articolo del Chicago Tribune del dicembre 1996, per descrivere una tecnologia di frontiera ancora acerba. “Cobot è coniazione inglese, composta da co(llaborative) e (ro)bot. A differenza di robot - da cui deriva - non ha un'origine letteraria ma risponde a un'esigenza di marketing: trovare un nome più attraente di 'macchine a vincoli programmabili' (programmable constraint machines) per commercializzare attraverso una apposita società - la Cobotics, fondata nel 1997 - i brevetti risultanti dalla collaborazione fra il laboratorio di robotica della Northwestern University e la General Motors", chiarisce Degl'Innocenti. “La rivista 'American Speech' dà notizia di questo neologismo già nel 1997, nella sezione Among the new words, enfatizzando alcuni degli aspetti più promettenti di questa tecnologia nel contesto della collaborazione fra uomini e macchine durante lo svolgimento di compiti particolarmente difficili o gravosi: affiancare i lavoratori senza sostituirli, migliorando la loro efficienza e garantendo al contempo un elevato livello di sicurezza, minimizzando il rischio di infortuni”.
L'idea di robot collaborativo è tuttavia anteriore di qualche decennio rispetto alla sua prima attestazione a stampa. “Già nel periodo compreso fra il 1965 e il 1971 Ralph Mosher, allora ingegnere presso la General Electric, coordinò lo sviluppo di due progetti che possono essere considerati all'origine stessa del concetto di cobot - chiamati rispettivamente Handyman e Hardyman - dedicati allo sviluppo di estensioni meccaniche del corpo umano, nella forma di esoscheletri motorizzati, destinati al sollevamento di carichi estremamente pesanti (oltre 500 kg)”, aggiunge Degl'Innocenti. “La storia dei tentativi di concepire macchine in grado di estendere le capacità umane - sia dal punto di vista fisico (come i cobot), che intellettivo (come le artes memorandi) è di per sé un racconto lunghissimo e affascinante che attraversa tutta la storia della cultura occidentale, dalla Grecia antica ai nostri giorni. In continuità con questa tradizione, fra i diversi intellettuali, Marshall McLuhan elabora - negli stessi anni in cui Mosher progetta Hardyman - una teoria secondo la quale i prodotti tecnologici della cultura di massa americana degli anni '50 rappresenterebbero di fatto delle estensioni delle facoltà umane. Il lettore curioso potrà ripercorrere questa storia avvalendosi degli scritti di Paolo Rossi, filosofo della scienza e storico delle idee fra i maggiori del XX secolo (cfr. I filosofi e le macchine. 1400-1700). I primi, infruttuosi tentativi di Mosher, falliti a causa di una tecnologia ancora troppo primitiva, misero in luce l'inadeguatezza delle macchine a rimpiazzare l'essere umano nello svolgimento di compiti delicati (Lacking of Human Sensing, fig.4b), ma aprirono la strada agli sviluppi successivi della robotica collaborativa, basata sull'affiancamento e non sulla sostituzione del lavoratore da parte della macchina”.
Dai primi anni 2000, l'impatto crescente della robotica collaborativa sull'evoluzione delle strategie industriali ed economiche è ben rappresentato dallo sviluppo del mercato di riferimento, a conferma della bontà della precoce intuizione del manager di General Motors. Oggi i cobot sono operativi in ambiti diversi da quelli tradizionali e si stanno facendo strada anche nell'industria logistica e alimentare. “Secondo le statistiche di Google, tuttavia, il volume di ricerche generato in Rete negli ultimi due decenni (2004-2020) dal termine cobot, paragonato a quello del suo suffissoide, risulta trascurabile. A partire dagli anni '10 del XXI secolo, il termine cobot è entrato nella nostra lingua col significato di 'robot collaborativo che aiuta e interagisce con le persone', consolidandosi nell'uso limitatamente ai contesti specifici della sicurezza (militare e sul luogo di lavoro) e dello sviluppo dell'automazione dei sistemi di produzione (meccatronica). Da non confondere con Co(rporate) (Ro)bot (automa aziendale): un individuo che ha perso la propria autonomia di giudizio in seguito all'adesione acritica alle direttive aziendali”, conclude il ricercatore.
Fonte: Emiliano Degl’Innocenti - Par Larson, Istituto Opera del vocabolario italiano , email larson@ovi.cnr.it -