Una parte dell’abbigliamento prodotto nel mondo viene bruciato e sotterrato, perché riciclarla o smaltirla costa troppo. Una parte viene portata nel deserto di Atacama, in Cile. Qui sono ammassati circa 40mila tonnellate tra magliette e pantaloni sintetici, trattati con vernici o agenti chimici. Prodotti per lo più in Asia, provengono soprattutto da Stati Uniti ed Europa, sono stati indossati per poco tempo e poi gettati via. Un recente reportage di Agence France Presse ha mostrato questa discarica, attivando un intenso dibattito sull’impatto ambientale di questo settore. “La moda nella sua filiera consuma molta acqua, produce microplastiche, rilascia agenti chimici, impatta sull’ambiente”, afferma Giampaolo Vitali dell’Istituto di ricerca sulla crescita economica sostenibile (Ircres) del Cnr. “Il problema è noto da tempo a operatori, policy maker ed economisti ambientali, tant’è che si sono già attivate numerose misure di intervento per favorire il riciclo dei tessuti e una produzione più sostenibile”.
In Italia, il decreto legislativo 116/2020 stabilisce da quest’anno l'obbligatorietà della raccolta differenziata dei rifiuti tessili, anticipando la data del 2025 stabilita dalla direttiva europea 2018/851. “Le stime dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) affermano che i rifiuti tessili potrebbero rappresentare il 6% di quelli urbani indifferenziati e che, se fossero riciclati, si ridurrebbe di 600mila tonnellate lo smaltimento in discarica”, precisa il ricercatore. “Anche la Commissione Ue ha iniziato il percorso istituzionale per definire una strategia comune sul tema della moda sostenibile, che rientra nel grande progetto del Green New Deal, con la spinta verso la doppia transizione ambientale e digitale. È probabile che l’Italia e l’Europa diventino presto il miglior esempio di economia circolare nel settore tessile, visto che secondo la Ellen MacArthur Foundation nel 2017 solo l’1% dei tessuti prodotti viene riciclato nel mondo”.