Francesca Archibugi: regista e sceneggiatrice per caso
Il suo incontro con la settima arte è del tutto fortuito ma - dopo un esordio come attrice a soli 16 anni - la porta dietro la macchina da presa, a scrivere sceneggiature di film importanti e a ottenere numerosi riconoscimenti. Tra le sue regie, “Mignon è partita”, “Il grande cocomero”, “Gli sdraiati”, “Il colibrì”. Quest’anno è andata in onda sulla Rai la miniserie tv “La storia” da lei diretta e tratta dal libro di Elsa Morante e agli inizi del 2025 inizierà la lavorazione della pellicola “Illusione”
Francesca Archibugi è una regista e sceneggiatrice italiana che nei suoi film indaga le emozioni e i sentimenti umani con curiosità e intelligenza. Si è diplomata in regia presso il Centro sperimentale di cinematografia di Roma e ha studiato sceneggiatura frequentando il corso di Leo Benvenuti e lavorando con Furio Scarpelli. Nel 1985 ha vinto il premio Solinas per la migliore sceneggiatura. Il suo primo film, “Mignon è partita” (1988), è un garbato racconto di formazione che ottiene diversi riconoscimenti, fra cui il David di Donatello per la miglior regia esordiente e la miglior sceneggiatura. Nei successivi lavori consolida la propria carriera e il proprio stile, proseguendo l’indagine sulle dinamiche famigliari, sentimentali e psichiche del mondo giovanile. È considerata una delle principali registe italiane, capace di mescolare la commedia e il dramma e di penetrare nelle emozioni e nelle fragilità umane, analizzando vizi e debolezze dell’Italia.
Lei è figlia di una poetessa e di un urbanista, cosa l’ha spinta verso il mondo del cinema?
Veramente è stato il mondo del cinema che si è avvicinato a me: mentre ero per strada con i miei compagni di scuola è passato un aiuto regista, mi ha visto e mi ha chiesto se volevo fare un provino. L’ho fatto e sono stata presa. Era un film per la televisione molto bello, girato da Gianni Amico, “Le affinità elettive”, tratto dal romanzo di Goethe, nel quale ho interpretato il ruolo della protagonista, Ottilia, di 16 anni. Dopo questa esperienza sul set, mi sono innamorata di questa professione, ma è stato del tutto casuale.
Il suo film d’esordio dietro la macchina da presa, “Mignon è partita”, parla dei primi turbamenti giovanili. I tanti riconoscimenti ottenuti testimoniano che è stato già qualcosa di più di una semplice opera di formazione. Come ha sviluppato questa capacità di investigare e analizzare i sentimenti complessi che guidano le nostre azioni?
È una cosa connaturata, se si ha l’ambizione di fare il narratore, bisogna essere in grado di raccontare gli esseri umani. C’è da dire che prima di “Mignon è partita” avevo girato cinque cortometraggi e avevo frequentato una scuola di regia. Nonostante fossi molto giovane avevo già esperienza, un elemento indispensabile perché il cinema è una macchina complessa, è un’arte però mediata dall’industria e, soprattutto, da una fortissima componente tecnica. Tutto il resto ce l’hai o non ce l’hai: uno sguardo che sa svelare l’invisibile degli esseri umani, raccontare quello che c’è dietro.
Sia come regista, sia come sceneggiatrice, da “Il grande cocomero” a “La pazza gioia”, fino a “Ella e John”, ha spesso affrontato il tema dei disturbi psichici, declinandolo in tutte le fasi della vita. Si tratta di un tema molto attuale, accentuato dal lockdown imposto dalla pandemia, un disagio che ha investito soprattutto i giovani. Come ha vissuto e quali sono le sue riflessioni su questa parentesi planetaria così traumatica?
Sono attirata dai disturbi della mente e dall’alterazione della percezione nelle persone per motivi familiari, perché sono stata in contatto in modo molto diretto con la schizofrenia, e questo mi ha acceso un interesse e anche una capacità e una voglia di guardare le persone che non hanno equilibrio nei confronti del mondo. La pandemia ha creato molti problemi, soprattutto alle persone con poco equilibrio, l’ho visto, analizzato, sentito e sono stata ferita da alcune testimonianze. Per quello che mi riguarda, però, la pandemia è stata uno dei momenti più belli della mia vita, perché sono stata in campagna con i miei figli, che vivono in varie parti del mondo e in quel periodo sono tornati tutti in Italia con i loro partner; siamo stati insieme e questo ci ha reso molto felici. Quindi, se si sposta il punto di osservazione di una situazione, quella stessa situazione diventa tutt’altro. Questo naturalmente non significa che non abbia visto intorno a me un esplodere del disagio, soprattutto nei ragazzi, che sono stati privati della scuola, il luogo di massima interazione nella fase in cui ci si forma e ci si plasma nei confronti degli altri e del mondo.
Nel film “Domani” tocca un altro argomento importante, quello del terremoto cha ha colpito l’Umbria nel 1997. Un fenomeno che interessa gran parte dell’Italia, un Paese ad alto rischio a sismico. Come le è nata questa idea?
È stata casuale. Una professoressa che conoscevo mi ha mandato un libro che raccoglieva i temi dei bambini che avevano subito il terremoto in Umbria e mi ha chiesto di presentarlo. Ho accettato volentieri, ho letto i temi e sono andata all’evento e, sentendo le loro esperienze, mi sono detta: questa è una storia da raccontare, non tanto il terremoto, quanto i suoi effetti sulle persone e quello che succede a una comunità quando arriva un colpo così forte.
Tra le tante collaborazioni con Paolo Virzì, lei ha partecipato alla sceneggiatura di “Siccità”, ambientato in un futuro distopico, in una Roma dove ormai non piove più da anni e il Tevere si è prosciugato. La desertificazione del pianeta è un tema “caldo” legato ai cambiamenti climatici. Qual è la sua posizione su questo fenomeno?
Questo film nasce da un soggetto che lo scrittore Paolo Giordano ha proposto a Virzì, che a sua volta lo ha fatto leggere a me e a Francesco Piccolo. Una volta letto, ho cominciato a riflettere sul tema. Fino a quel momento ero una semplice spettatrice impaurita e poco informata su quello che sta succedendo, quando però acquisisci conoscenze maggiori, ti rendi conto che il fenomeno è più terribile di quanto immagini. Quindi, il fatto che ci sia una distopia, che si faccia un salto in avanti e si veda una desertificazione che probabilmente noi non vedremo - ma che forse vedranno i nipoti dei nostri nipoti - vuole spingere lo spettatore a riflettere sul fatto che si verificherà un grandissimo cambiamento per l’umanità. Per fortuna in seguito ho letto un altro saggio che, per certi versi, mi ha in qualche modo rasserenata, perché spiega che la Terra non finirà, semmai a finire saranno gli esseri umani che la stanno distruggendo: il Pianeta spazzerà via il loro passaggio e tornerà a essere il posto felice che ha diritto di essere. Questa prospettiva mi ha impressionato perché da una parte è terrorizzante, ma da un’altra è salvifica: in fondo noi umani siamo degli animali come gli altri, ci stiamo comportando male e forse meritiamo, nell’arco di una decina di generazioni, di essere spazzati via.
La storia del cinema è costellata di opere tratte da romanzi e racconti letterari adattati al grande schermo; nel suo caso ci sono “Con gli occhi chiusi”, “Gli sdraiati” e, recentemente “Il colibrì”. Quali sono le differenze tra il linguaggio letterario e quello cinematografico, con quale approccio linguistico e stilistico una sceneggiatrice/regista si avvicina a un testo letterario noto per trasformarlo in un film?
Sono linguaggi completamente differenti, da un volume prendi storia, personaggi e, soprattutto, sentimenti, però poi devi riscriverli completamente, non devi tradurli, devi farne un’altra cosa: un film è altro rispetto a un libro. Puoi essere più o meno fedele rispetto agli intenti, alla parabola esistenziale dei personaggi, però sei assolutamente infedele al modo di raccontare. In fondo, è una cosa che si è sempre fatta: le storie nel cinema hanno sempre attinto a vari testi. Alcune, certo, sono state inventate, ma in realtà le storie che sono state inventate sono state prese da altri serbatoi, perché nessuno inventa niente. E i serbatoi sono sempre la letteratura, ma anche altri film, il teatro. Quando pensi di scrivere un soggetto originale, in realtà questo viene da storie che ti precedono. In fondo, se si riflette, nella Bibbia e nell’Odissea ci sono quasi tutte le storie che si possono raccontare, vanno solo rimesse in ordine e va scritto un testo originale, che è tale anche se è preso da un libro, da un racconto, perché dà vita a un prodotto nuovo, caratterizzato da un linguaggio diverso.
Quest’anno è andata in onda sulla Rai la sua fiction “La storia”, ispirata al romanzo di Elsa Morante ambientato negli anni della Seconda guerra mondiale e del dopoguerra. Ha influito nella sua scelta il momento che stiamo vivendo, con due guerre in corso: tra Russia e Ucraina e tra lo Stato di Israele e Hamas?
Assolutamente sì. Esplorare i conflitti del passato attraverso un libro così gigantesco come quello della Morante, che dice una parola definitiva sul senso della guerra è stato molto interessante e stimolante per me. Innanzitutto, perché, come dicevo prima a proposito di “Siccità”, noi crediamo di sapere tante cose, ma non è sempre vero. Per esempio, l’opera della Morante mi ha illuminato sulla Seconda guerra mondiale sulla quale, pur considerandomi una persona abbastanza informata, avevo poche conoscenze. Quindi sono andata a fondo, sono tornata alla Prima guerra mondiale, all’Unità d’Italia per capire le ragioni che portano le nazioni una contro l’altra in modo così violento. Nel momento in cui approfondisci, studi cosa c’è sotto i rancori di una nazione verso un’altra, ti rendi conto che quasi sempre ci sono dei potenti che mandano a morire giovani poveri. Uno schema che si ripete dalle Crociate fino alle guerre contemporanee: muoiono i giovani, muoiono gli innocenti e le persone che decidono tutto questo restano chiuse nei loro bunker, al sicuro.
Qual è il suo rapporto con la scienza e con il mondo della ricerca?
Come saprete, mio fratello Daniele è un ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche ed è stato direttore dell’Istituto di ricerca sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr. Anche la mia figlia maggiore è una ricercatrice. Provo molta ammirazione per chi lavora in questo settore e penso che la loro attività sia veramente importante per l’umanità. Per quanto mi riguarda, sono avida di notizie scientifiche, mi piace essere informata su questi temi, sulle nuove scoperte.
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
È già in cantiere un film, che comincerò a girare all’inizio del 2025, si intitola “Illusione” ed è prodotto da Fandango. È una storia di rapporti tra ragazze giovani e fragili e uomini ricchi e potenti, ed è ambientata tra l’Italia, Strasburgo e la Moldavia. Di più non posso dire.