Differenze di genere nella pandemia
Malattie come il Covid-19 colpiscono nella stessa maniera uomini e donne? A questa domanda si è risposto durante un incontro dell'Associazione italiana di epidemiologia. Ce ne riferisce Cristina Mangia dell'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima del Cnr, coordinatrice del gruppo “Salute di genere” dell'Associazione
Con la definizione “medicina di genere” si intende la branca che studia le diversità biologiche e socioculturali tra uomini e donne e l'influenza che questi fattori hanno sullo stato di salute e di malattia e sulla risposta alle terapie. In Italia questo concetto è stato introdotto nel 1999, quando il ministero per le Pari opportunità ha costituito il gruppo lavoro “Medicina donna-salute”, con l'obiettivo di progettare “Una salute a misura di tutti”. Ma è solo con la legge 3/2018 (decreto Lorenzin) che viene per la prima volta stabilito che il ministero della Salute, con l'Istituto superiore di sanità (Iss), deve pianificare una strategia per la diffusione della medicina di genere attraverso la divulgazione, la formazione e la promozione di pratiche sanitarie. Per secoli nella ricerca medica si è considerato che corpo maschile e femminile differissero solo per dimensioni e fisiologia riproduttiva, assumendo un'ipotetica “norma” maschile, dalla quale le donne sfuggivano per alcuni caratteri. L'epidemiologia ha avuto un grande ruolo nel far emergere le differenze tra i sessi nella sintomatologia e nel decorso delle patologie, come anche nelle reazioni ai farmaci o nell'accesso alle cure, facendo rivedere tale paradigma.
Anche la pandemia di Sars-Cov-2 ha mostrato alcune differenze nella gravità, nei sintomi e nelle percentuali di contagio nei due sessi, come è stato evidenziato nel corso di un convegno organizzato dall'Associazione italiana di epidemiologia in collaborazione con il Centro nazionale per la medicina di genere dell'Istituto superiore di sanità, su hanno pubblicato un articolo Cristina Mangia dell'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima (Isac) del Cnr ed Eliana Ferroni del Servizio epidemiologico regionale del Veneto. Durante il webinar sono state presentate le principali specificità di genere riscontrate, partendo dai meccanismi biologi e arrivando ai dati epidemiologici.
“Alessandra Carè del Centro nazionale per la medicina di genere dell'Iss nella sua relazione introduttiva ha sottolineato l'importanza di tenere conto delle differenze di genere a tutti i livelli della medicina, da quello sperimentale agli studi preclinici e clinici. Le donne rimangono ancora sottorappresentate, in particolare nelle fasi iniziali degli studi, nonostante si sia notato che il loro organismo reagisce in modo diverso rispetto alla controparte maschile”, riporta Mangia.
“Patrizio Pezzotti del Dipartimento di malattie infettive dell'Iss ha presentato una serie di analisi dei dati di incidenza, ospedalizzazione e mortalità per Covid-19 stratificati per sesso, mettendo in evidenza alcune differenze di genere e sottolineando gli aspetti sociali che spesso vengono dimenticati quando si parla di contagi e malattie”, prosegue la ricercatrice del Cnr-Isac. “All'inizio della prima ondata epidemica, l'andamento settimanale del numero dei casi ha mostrato un maggior numero di casi postivi diagnosticati nelle donne rispetto agli uomini a causa della presenza di un più elevato numero di donne in case di riposo, scuole e ospedali. Anche nello studio della popolazione immigrata residente è emerso che la percentuale di casi positivi è più alta nelle donne provenienti da alcuni Paesi (come quelli del est Europa) fenomeno che potrebbe essere spiegato da un'esposizione di tipo professionale, per esempio nelle badanti e operatrici sanitarie”.
“La presentazione che ho realizzato con Emilio Gianicolo dell'Universitätsmedizin di Mainz (Germania) ha riguardato invece i dati Covid-19 per sesso ed età in Italia, Germania, Spagna e Svezia, Paesi scelti perché hanno attuato politiche differenti”, prosegue Mangia. “Si è visto che le donne sono più vulnerabili alle infezioni nella fascia d'età compresa tra i 30 e i 60 anni e che la letalità è più elevata negli uomini che nelle donne. Il rapporto aumenta nelle fasce d'età più basse, a sostegno dell'ipotesi di meccanismi di protezione ormonale per le donne in età fertile. Queste differenze mettono in luce la necessità di comprendere meglio l'interazione tra genere ed età sia per la sorveglianza epidemiologica sia per una migliore appropriatezza di genere dei trattamenti profilattici e terapeutici in corso”.
La sorveglianza, tuttavia, è possibile solo se tutti gli indicatori (sintomi, malattie passate, assistenza sanitaria primaria e ospedaliera, ricovero ospedaliero, reazioni avverse ai farmaci, ai vaccini) sono pubblicati per età e sesso” conclude la ricercatrice.
Fonte: Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima , email c.mangia@isac.cnr.it -