Me ne vado
Nella società dell'apparenza, la “sottrazione” può divenire uno strumento di comunicazione paradossalmente ancora più efficace. Sin dall'eremitaggio e dal monachesimo anacoretico, infatti, sappiamo quanto l’assenza, la distanza, l’esilio e il silenzio possano colpire l'immaginario collettivo e trasmettere un messaggio forte. Strategie che funzionano, però, se messe in atto con parsimonia e con contenuti di qualità effettiva
Riteniamo di vivere in una società non soltanto della comunicazione ma anche dell'apparenza, una percezione in buona parte motivata. L'uomo è un animale sociale che non può “non comunicare” - come insegna Paul Watzlawich, mediologo austriaco ed esponente della scuola di Palo Alto - poiché anche il comportamento, qualunque sia, è una trasmissione di informazioni verso gli altri. Per quanto sia la grande conquista evolutiva dell'essere umano senz'altro rappresentata dal linguaggio - la parola, la costruzione di messaggi verbali - fino a farla da padrone nei nostri sistemi sociali prima con l’oralità e poi, grazie all’invenzione della stampa a caratteri mobili, con l’ingresso nella “Galassia Gutenberg”.
Già da parecchio tempo, però, l'immagine sembra avere ancor più assunto questo ruolo di protagonista: partendo dalle arti figurative, passando per la fotografia e per le prime proiezioni dei fratelli Lumière, che tanto scioccarono i loro contemporanei, fino alla contemporaneità nella quale è diventata quasi irrefrenabile la tendenza a riprendere e fotografare con il nostro cellulare qualunque cosa ci trovi spettatori o protagonisti, per condividerla con i nostri amici. Dove intercettiamo un pubblico potenzialmente misurato, ancorché, nella realtà, la gran parte delle nostre comunicazioni non riesca a superare le bolle informative in cui ciascuno di noi si protegge dal continuo bombardamento di messaggi cui è soggetto.
Questa ostentata quanto improvvisata offerta di noi stessi ai nostri simili viene ricondotta in modo un po' stereotipato al successo dei social media, a sua volta attribuito alla grande rivoluzione tecnologica operata dal web 2.0 e dalla diffusione degli smartphone, che consentono di inserirsi nelle dinamiche comunicative con estrema facilità e velocità. La considerazione è quasi scontata ed è però anche incompleta, poiché nell’evoluzione di cui parliamo bisogna considerare molti altri fattori, passaggi, invenzioni e innovazioni tecnologiche e culturali precedenti. Per esempio, la televisione, che ha omologato abitudini e mentalità di pubblici eterogenei e avallato la confusione tra popolarità e autorevolezza, facendo sì che la persona più famosa, nel momento in cui esprime un’opinione su un argomento del quale magari non è davvero competente, venga interpretata come la fonte più valida.
Esiste poi un fenomeno più recente, la mitizzazione della popolarità a livello giovanile, nato verso la fine del secolo scorso, quando tra i ragazzi sono tramontati altri obiettivi sociali, quali la leadership politica o culturale. Non che questi ultimi modelli fossero immuni da controindicazioni: sappiamo bene quanto i cattivi maestri abbiano seminato nei secoli scorsi e ricordiamo che si parla addirittura di “effetto Werther” per indicare l'epidemia di suicidi emulativi indotta dal romanzo di Goethe. I fenomeni di massa hanno insomma sempre avuto le loro conseguenze anche gravi, il problema non nasce con le “challange”. Quello dell'apparenza e della popolarità, dell’affermazione e dell’identità è un tema molto complesso, che andrebbe analizzato tenendo conto della sua plurimillenaria articolazione storica, senza fermarci a guardare l'ultimo miglio, o millimetro, del percorso.
Spesso, inoltre, si sottovaluta quanto proprio la “sottrazione” sia uno strumento di riconoscibilità paradossalmente più efficace, in un contesto mediatico così affollato e caotico, nei soggetti anche periferici, privi di contenuti originali e validi smaniano per guadagnare i loro minuti di popolarità warholiana. Non si tratta, anche in questo caso, di una novità: tutt'altro. Sin dall'eremitaggio e dal monachesimo anacoretico, quindi per lo meno in epoca paleocristiana, tanto in Oriente come in Occidente, si sono affermati personaggi e leader che basavano la loro forza comunicativa non sulla ripetizione del messaggio, né sull'utilizzo di mezzi per amplificando, ma sul nascondimento.
Per tornare al semplice quanto fondamentale principio di Watzlawich proprio l’assenza, la distanza, l’esilio e il silenzio potrebbero essere un modo migliore per colpire l'immaginario collettivo. Basti pensare a quanti sapienti abbiano scelto l’esoterismo più criptico, oppure si siano rivolti solo a ristretti circoli di seguaci. Ma anche alla profonda ironia con cui Alessandro Manzoni nei “Promessi sposi” indica la secretazione riservata quale miglior sistema per divulgare una notizia: “Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d’un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui” e dunque il segreto “gira per quell’immensa catena, tanto che arriva all’orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in cammino, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice, e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma ci son degli uomini privilegiati che li contano a centinaia”.
Oppure pensiamo ancora a San Simeone Stilita il Vecchio, al quale il regista spagnolo Luis Buñuel ha dedicato il film “Simon del deserto”, che proprio per la scelta di ritirarsi in cima a una colonna divenne punto di riferimento per tanti suoi contemporanei. E, per restare al cinema, ai casi di Greta Garbo e Grace Kelly, assurte tra le dive più iconiche proprio per la scelta di ritirarsi dalle scene. E' ovvio che non apparire non basta: Mina è dotata di una longevità vocale e artistica straordinarie, alla quale la decisione di sottrarsi a schermi, telecamere e fotografie funge solo da amplificatore. L’escamotage è usato nel marketing e nella pubblicità con il teaser, che anticipa un prodotto senza nominarlo, così da creare l’attesa. Gli autori parlano di “levare”: evitare cioè l’enfasi o l’urlo, laddove il sussurro funziona meglio. Strategie che funzionano se messe in atto con parsimonia e in presenza di una qualità effettiva, altrimenti ci si riduce come certi artisti che dichiarano periodicamente la propria uscita di scena. O come il protagonista dell’esilarante dilemma morettiano: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Come dice il proverbio, scrivere un bel silenzio non è facile.
Fonte: Marco Ferrazzoli, dirigente tecnologo Cnr e giornalista, marco.ferrazzoli@cnr.it