Focus: Luoghi comuni

Preghiere al vento. Di Focara

Fiorenzuola di Focara
di Luisa De Biagi

Fiorenzuola di Focara, a pochi chilometri da Pesaro, è ricordata da Dante in un canto dell’Inferno per il suo vento “sferzante”. Ne parla Marina Baldi, climatologa dell’Istituto per la bioeconomia, mentre Cristiano Lorenzi Biondi dell’Opera del vocabolario italiano spiega come il poeta sia venuto a conoscenza di questa particolarità atmosferica del borgo marchigiano

Pubblicato il

Sulla scenografica falesia in arenaria del Parco Naturale del Monte San Bartolo, al confine tra Marche e Romagna, storico luogo di allenamento per Valentino Rossi e Marco Pantani, tra gli inaspettati scenari offerti al visitatore, in mezzo a strapiombi, boschi misti, fossili, flora spontanea e specie protette, spiagge di ciottoli e ghiaie (i cosiddetti cogoli di rilevante interesse geologico), troneggia il borgo dantesco di Fiorenzuola di Focara, a pochi chilometri a nord di Pesaro, che recentemente ha ottenuto il premio di Borgo ospite, uno dei più importanti riconoscimenti italiani nell’ambito del turismo culturale. Così Dante ricordava il suo passaggio proprio in queste zone nel XXVIII canto dell’Inferno: “E fa sapere a' due miglior da Fano, / a messer Guido e anco ad Angiolello, / che, se l'antiveder qui non è vano, / gittati saran fuor di lor vasello / e mazzerati presso a la Cattolica / per tradimento d'un tiranno fello. / Tra l'isola di Cipri e di Maiolica / non vide mai sì gran fallo Nettuno, / non da pirate, non da gente argolica. / Quel traditor che vede pur con l'uno, / e tien la terra che tale qui meco / vorrebbe di vedere esser digiuno, / farà venirli a parlamento seco; / poi farà sì, ch'al vento di Focara / non sarà lor mestier voto né preco” (Divina Commedia, Inferno, Canto XXVIII, 76-90).

Questo passo è utile anche per lo studio del paleoclima e per i suoi purtroppo drammatici sviluppi. Infatti, il vento impetuoso di Fiorenzuola di Focara è un fenomeno ben noto fin dall’antichità e presumibilmente sperimentato dallo stesso poeta, come spiega la climatologa Marina Baldi, dell’Istituto per la bioeconomia (Ibe) del Cnr: “Il fenomeno cui fa cenno Dante è probabilmente conosciuto per esperienza diretta dall’autore. Le coste del medio Adriatico, solitamente soleggiate e caratterizzate da un clima mite, a volte sono soggette agli effetti di intense burrasche con forti venti. Due i più temuti: la bora e il libeccio, che in quelle terre assume il nome di garbino. Venti ben diversi, seppure entrambi molto intensi e rafficati: la bora, fredda e secca, che spira da nord-est, interessa l’altopiano carsico, le vallate delle Alpi Giulie, le vallate delle Alpi Dinariche e in alcuni casi interessa anche le coste italiane dell’alto e medio Adriatico; il garbino, vento umido sud-occidentale, il cui nome deriva da ‘gharbī’, termine arabo usato per indicare occidente. Se la prima è più propriamente invernale, il secondo, vento di terra, giunge sulle coste adriatiche dopo aver scavalcato gli Appennini e presenta i suoi massimi fra autunno e primavera, quando può causare forti burrasche e grandi mareggiate. In particolare, il garbino, soffiando da terra verso il mare, genera oscillazioni periodiche sulla superficie del mare, quasi onde di ‘sessa’, come se si trattasse di un bacino chiuso, causa di preoccupazione e attenzione per chi è in navigazione. Le violentissime tempeste che interessano l’area di Focara e, più in generale, dell’alto e medio Adriatico, oggi come in passato sembrano essere il risultato del passaggio di quelle che in meteorologia si chiamano ‘linee dei groppi’, ovvero un fronte freddo che si determina in presenza di cicloni non-occlusi, lungo il quale si verificano violenti temporali, colpi di vento, turbolenze e brusche variazioni della temperatura. Il passaggio di queste linee dei groppi rappresenta nell’Adriatico un pericolo costante, ben noto ai naviganti, date le violente manifestazioni meteorologiche associate, e alle popolazioni che vi abitano”.

Un esempio ancora impresso nella memoria degli abitanti di questi territori è l’evento estremo del 3-4 novembre 1966: “Due fronti occlusi provenienti da occidente si fusero in un’unica struttura e attraversarono la catena degli Appennini, muovendosi verso il medio-alto Adriatico. Nel loro cammino, oltre ai danni portati a Firenze, provocarono in tutto il bacino notevoli onde di sessa che crebbero con grande rapidità e un’acqua eccezionalmente alta a Venezia (194 cm in assenza di influenza astronomica). A ragione, dunque, Dante afferma che ai due migliori uomini di Fano, scaraventati fuori della loro nave, contro i venti di Focara non serviranno né le preghiere, né i voti”, sottolinea la ricercatrice.

Fiorenzuola di Focara

Ma come fece Dante a conoscere il vento di Focara? Lo sperimentò personalmente? Per caso poté vedere degli ex-voto lasciati dai naviganti, come la bibliografia dantesca ha talvolta proposto? Secondo Cristiano Lorenzi Biondi, ricercatore dell’Opera del vocabolario italiano del Cnr, non sono molti i luoghi fuori dalla Toscana che Dante frequentò con sicurezza, da un punto di vista documentario o per testimonianza dello stesso poeta. “La risposta purtroppo può avvalersi solo di minimi dati che a mano a mano si sono chiariti, con l’avanzamento degli studi: il nome Focara, di incerta etimologia (da fuoco? da foce?) fu riabilitato come toponimo solo alla fine dell’800, quando Fiorenzuola passò a chiamarsi Fiorenzuola di Focara. Nel Medioevo invece Focara (o Fugara, Fogaria) probabilmente non designava un centro abitato, bensì una zona comprendente il settore più settentrionale delle colline tra Pesaro e Cattolica, pressappoco corrispondente all’ampio promontorio di Gabicce o San Bortolo, delimitato dagli abitati di Granarolo, Castel di Mezzo, Gabicce e Fiorenzuola”.

A riprova di ciò si può osservare che Cattolica, “secondo i documenti giuntici, fu fondata nel 1271, quando i castelli del promontorio di Focara (terre et universitates Fogarie) ottennero la protezione di Rimini contro Pesaro, a patto di fondare e fortificare la stessa Cattolica e di costruire altri approdi tra Rimini e Pesaro”, prosegue Lorenzi Biondi. “Focara poi è citata nelle carte nautiche e nei portolani medievali, compreso il più antico, il ‘Compasso de navegare’ tramandato da un manoscritto del 1296. Alcuni dati archeologici evidenziano che nei portolani il nome del promontorio probabilmente era usato per indicare un punto di approdo in corrispondenza della foce del piccolo Rio Vallùgola, che si prestava all’attracco in mezzo a una costa alta e scoscesa (tale porto fu attivo fino al sec. XVII). Nel suo ‘Liber de obsidione Ancone’ (Il libro sull’assedio di Ancona), composto tra il 1198 e il 1201, Boncompagno da Signa afferma poi che, dopo che Attila aveva distrutto le mura del porto di Ancona, soltanto il vento che il volgo chiamava ‘focarese’ poteva danneggiare le navi, qualora non fossero bene ancorate (“solus ventus, qui vulgo dicitur ‘focarese’, naves quandoque dampnificat, nisi fuerint studiosius anchorate”). Già in base alle fonti medievali il vento di Focara sembra definirsi come un maestrale spirante dal promontorio di Focara verso Ancona, capace di creare mareggiate tali da sconquassare le navi non ben ancorate”.

Sia che Dante abbia personalmente sperimentato lo sferzante vento, sia che lo abbia desunto da fonti scritte e orali: “Rimane certo che la Commedia dantesca si configura anche in questo caso come un meccanismo di diffusione narrativa e figurativa pressoché infallibile, nel quale gli elementi della finzione poetica spesso si sostanziano della realtà fisica e concreta di luoghi ed elementi realmente esistiti e spesso ancora esistenti, dando origine a immagini capaci di rimanere adese a un luogo e a un personaggio, sino quasi a definirli per antonomasia nella sfida contro il tempo. Non a caso, fu probabilmente grazie a Dante e alla memorabilità della sua opera che Fiorenzuola acquisì il nome ‘di Focara’; ed è grazie alla forza icastica delle parole dantesche che ancora rammentiamo Guido del Cassero e Angiolello da Carignano, indissolubilmente legati a quelle preghiere mai fatte ‘al vento’ che al contempo è divenuto, giocoforza, simbolo e carta d’identità di un tratto di litorale marchigiano”, conclude il ricercatore.

Fonte: Marina Baldi, Istituto per la bioeconomia, marina.baldi@ibe.cnr.it; Cristiano Lorenzi Biondi, Opera del vocabolario italiano, lorenzobiondi@ovi.cnr.it

Argomenti