Faccia a faccia

I "primi 40 anni" di giornalismo di Paolo Di Giannantonio

Paolo Di Giannantonio
di Alessia Cosseddu

Iscritto all'ordine dei giornalisti dal 1980, nel 1983 entra in Rai. Ha svolto numerose inchieste e, come inviato del Tg1, ha girato il mondo. La Siria è il luogo che più di tutti gli è rimasto nel cuore. Nell'intervista racconta alcuni episodi dei suoi 40 anni di attività in tv ma anche nei new media

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Iscritto all'ordine dei giornalisti dal 1980, nel 1983 entra al Tg1 dove, per diversi anni, conduce l'edizione delle 13.30. Ha condotto le trasmissioni Unomattina, Italia Sera, Ore 23, attualmente è nella redazione di Speciale Tg1. Soprattutto, è stato per anni inviato speciale del Tg1 sia in Italia che all'estero, effettuando collegamenti e reportage dai luoghi teatro della prima Guerra del Golfo, della crisi Iran-Iraq, della crisi in Bosnia, Croazia, Kosovo e Macedonia; ha raccontato le vicende legate all'Autorità nazionale palestinese e alla nascita dello stato Palestinese e il crollo del regime filo-sovietico in Afghanistan per citarne solo alcuni. In Sudafrica ha raccontato la liberazione di Nelson Mandela e la sua elezione a presidente. Nell'intervista ci racconta, più con ironia che con nostalgia, alcuni episodi dei suoi quarant'anni di giornalismo e i luoghi conosciuti come inviato.

Una carriera da giornalista televisivo Rai a tutto tondo: come vive la rivoluzione dei new media e della disintermediazione? 

Vengo dagli anni in cui sembrava che la televisione fosse il media per eccellenza, capace di dettare tempi e argomenti. L'arrivo dei social media e delle nuove tecnologie ci ha fatto capire che anche la televisione deve adattarsi. Del resto, dicevamo anche che la radio era morta e abbiamo visto che, seppure con molti cambiamenti, questo mezzo glorioso è ancora vivo: così anche la televisione resterà parte di questo universo comunicativo sempre più ampio e vicino alle persone, che saranno le vere protagoniste, scegliendo di ricevere solo le informazioni e i contenuti che desiderano.

Lei comunque è molto presente e popolare su Facebook, quasi un influencer... 

In realtà non mi ci trovo bene. Mi spaventano la violenza, soprattutto dopo una discussione sui vaccini in cui sono stato insultato in una maniera incredibile, e la polarizzazione delle opinioni, lo schierarsi con una o con l'altra parte che connotano questo sistema, mentre io ritengo che spesso la verità stia nel mezzo. Per cui ho deciso di non parlare più di cose “serie”, di limitarmi a giocare con i social, a divertirmi, a trovare delle amicizie con cui scambiare piacevolezze.

Quindi non giudica i social come una risorsa dell'informazione? 

Penso sempre ad Alfred Nobel che ha inventato la dinamite: utilissima, basti pensare a quanti minatori hanno evitato fatiche inumane nelle miniere, ma poi ne è stato fatto un uso terribile. I social, come tutte le cose della vita umana, hanno due facce, dipende da come li si usa.

Nel 2017 ha condotto nella sede centrale del Cnr l'assegnazione del Premio di divulgazione scientifica. Qual è secondo lei l'importanza di questa attività? 

Direi che è massima, perché avvicinare la scienza alle persone comuni e fare in modo che a esse arrivino almeno dei brandelli di conoscenza è importantissimo. Non dico che la gente possa comprenderla tutta, per esempio certi studi teorici o di laboratorio verso cui pure nutro massima ammirazione, ma noi cittadini normali abbiamo il dovere di capire quali sono gli aiuti che la scienza fornisce nella vita di tutti giorni. Alla fine della premiazione ho chiesto al presidente del Cnr: “Ma dopo tutte le discussioni che abbiamo fatto, l'olio di palma fa male, sì o no?". Nel 2017 sembrava che quest'olio di palma fosse il pericoloso assoluto e il presidente mi spiegò che di per sé non fa più male di altri prodotti equivalenti ma che comporta danni ambientali che dobbiamo monitorare con attenzione. Se come mass media fossimo riusciti a spiegare bene questo, avremmo evitato reazioni isteriche al supermercato e avviato politiche alimentari più virtuose.

Torniamo alla sua carriera. È un esperto di Medio Oriente, cultura islamica, conflitti dell'area, terrorismo integralista. Temi che da qualche tempo sembrano passati in secondo piano, come mai? 

Intanto da qualche mese a questa parte parliamo quasi di un solo argomento, il Coronavirus, inoltre nel mondo dell'informazione ci sono alcune “mode”, magari scatenate da fattori importanti. Per esempio, in Italia, quando si verificano attentati in Paesi vicini si registra un eccesso di informazione che crea ansia e angoscia, facendoci sentire “in guerra”. O pensiamo alle polemiche sull'immigrazione, al timore dell'arrivo di terroristi che è stato smentito dai fatti. Per contro, in politica estera, con la fine della presenza del califfato nell'area tra Siria e Iraq è venuta meno l'attenzione spasmodica che tutto il mondo aveva posto in quella direzione. Invece estremismo e terrorismo non sono finiti e dobbiamo sempre stare attenti e ricordare che l'Italia ospita il centro del mondo cristiano-cattolico che le due riviste dello stato islamico, fruibili on line, continuano a indicare come un obiettivo da colpire.

Come ricorda l'esperienza durante la Guerra del Golfo? 

Sono stato nove mesi in Arabia Saudita e Kuwait, un'esperienza molto formativa. Noi siamo nati e vissuti nel contesto favorevole di un'Europa in pace: le nostre generazioni sono le prime a non aver conosciuto direttamente la guerra. Questa è un'eccezione nella storia dell'umanità, perciò trovarsi come giornalista in un contesto in cui la tua vita è in pericolo è uno shock. Una sera ero in albergo a Dhahran, in Arabia, e a mezzanotte scadeva l'ultimatum dato dalle forze della coalizione a Saddam Hussein. Nel corso di uno "Speciale Tg1" il mio amico Lamberto Sposini si collegò con me al telefono e mi chiese se la guerra sarebbe scoppiata. Io risposi che credevo di no, perché sarebbe stata una pazzia da parte dell'Iraq mettersi contro il formidabile dispositivo di forze armate messo in piedi dagli Stati Uniti. Due minuti dopo cominciarono a partire i missili: quello che avevo previsto era assolutamente sbagliato. Lamberto mi chiese dove mi trovassi e io risposi: “In effetti, sotto un tavolino ma non credo che mi possa aiutare perciò esco almeno sto seduto comodo". Scherzi a parte, fu il primo momento di vera paura, perché si pensava che lanciassero dei missili caricati con gas sarin, un'altra falsità su quella guerra, come l'invenzione che l'Iraq disponesse di armi di distruzione di massa, pretesto inesistente usato per scatenare la guerra. Fake news e conflitti vanno a braccetto da sempre.

In quale posto vorrebbe tornare, le è rimasto nel cuore? 

Uno nel quale sono andato come turista e giornalista, la Siria. Un gioiello prezioso nel mondo islamico, dal punto di vista della cultura. Oggi la conosciamo soprattutto per la guerra e l'integralismo, ma dal punto di vista culturale ha dato tantissimo: cibo, musica, poesia, archeologia, storia... Mi si stringe il cuore a vedere come due Paesi quali Siria e Libano si siano ormai ridotti.

Il Mediterraneo è teatro di conflitti e flussi migratori. Quale soluzione praticabile possono perseguire Italia ed Europa? 

Intanto, gli europei non dovrebbero litigare fra loro come abbiamo fatto in Libia con i francesi, che effettivamente hanno forzato, mettendoci nei guai e cercando di sostituirsi all'Italia. Secondo, l'opzione militare sulla Libia mi lascia senza parole, forse perché non sono un militarista, per quanto anche fare soltanto dichiarazioni diplomatiche lascia il tempo che trova. Dovremmo ragionare sul fatto che il Mediterraneo è un mare piccolo, ma pieno di energie e cultura, se si riuscisse a trovare un filo comune di interesse tra tutti i Paesi che vi si affacciano staremmo molto meglio in questo “condominio”, ne guadagneremmo tutti.

Si è occupato tra l'altro di temi legati anche all'ambiente e alla salute, quanto pensa siano ormai connessi tra loro? 

Abbiamo sempre avuto bisogno di acqua e cibo, ma ormai siamo diventati miliardi di persone su questa Terra: quindi, con l'aiuto della scienza, dovremo riuscire a far bere e mangiare tutti. Se non si considera questo aspetto comune e si continua a pensare che il Pianeta sia solo qualcosa da sfruttare, allora stiamo andando volutamente verso la fine. Il mondo deve fermarsi, avviare una riflessione etica imprescindibile, ne va del futuro delle prossime generazioni.

In 40 anni di giornalismo, cosa le ha dato maggiore soddisfazione e cosa ricorda con più rammarico? 

Ci sono state notizie importanti che non ho capito o valutato, occasioni grandiose che ho sfiorato ma la fortuna non mi ha aiutato, come quando sono arrivato a un passo dall'intervistare Osama bin Laden. Ero d'accordo per scrivere un libro con il famigerato comandante Arkan, il capo dei paramilitari serbi, ma me lo hanno impedito a colpi di mitra. Altre volte la fortuna è stata mia complice, per esempio sono riuscito a intervistare Nelson Mandela in Sudafrica semplicemente perché con il mio collega operatore incontrammo in aereo a Johannesburg un signore che vedendo la telecamera Rai, quando spiegai che andavamo per raccontare le elezioni, ci disse che era suo amico ed effettivamente ci aiutò a incontrarlo in una chiesa dove si recava a pregare. Un'intervista di cui vado fiero.