Cervelli fuori sede
L'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr e il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale hanno sottoscritto un protocollo d’intesa per collaborare a uno studio sui ricercatori italiani all'estero, lanciando un survey che punta a fornire strumenti di confronto e proposte di sviluppo per le politiche scientifiche del nostro Paese
Nella formazione di un ricercatore un'esperienza all'estero è un passaggio importante, quasi obbligato. Permette di costruire un sistema di riferimenti più vasto, acquisire conoscenze e collaborazioni. Anche la carta europea dei ricercatori ricorda l’importanza fondamentale per la formazione di tutte le esperienze di mobilità degli scienziati, che rappresentano una grande opportunità anche per la diplomazia scientifica, favorendo il dialogo internazionale e migliori rapporti culturali ed economici tra i Paesi.
Insomma, per chi fa ricerca spostarsi è bene e fa bene. Ma per l’opinione pubblica italiana la mobilità internazionale dei nostri ricercatori ha assunto nel tempo un valore negativo: fuga dei cervelli, brain drain, diaspora scientifica. Per quale ragione? Un po’ il tema è politico, ma non mancano motivi oggettivi. Per la ministra dell’Istruzione Maria Cristina Messa: "La mobilità dei nostri giovani ricercatori non è di per sé un aspetto negativo. Il problema è che il fenomeno è asimmetrico: non c'è una reale circolazione e non riusciamo ad attrarre giovani stranieri".
I ricercatori italiani che partono non tornano infatti quasi mai indietro e pochi sono gli scienziati stranieri che scelgono l’Italia per fare carriera. Uno studio del 2012 (Franzoni, Scellato, Nature Biotech) dimostrava come il 16% dei ricercatori italiani pubblicasse dall’estero, mentre solo il 3% degli articoli scientifici italiani avesse un autore di origini straniere. Le cose dopo un decennio non sono cambiate. Secondo una stima citata dalla Corte dei Conti (Referto sul sistema universitario 2021) dal 2013 a oggi la fuga dei laureati è aumentata del 41,8% .
Un sondaggio informale promosso dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale nel 2021 tra le diverse Sedi diplomatiche italiane ha contato circa 33mila ricercatori italiani all’estero. Il gruppo più grande è quello degli Stati Uniti, dove è stimato lavorino più di 15.000 scienziati italiani. Seguono il Regno Unito, che ne conta circa 6.000 e la Francia e la Germania con circa 3.500 ciascuno. Altrettanti ricercatori italiani si stimano nella Penisola iberica. In Norvegia, secondo la nostra Ambasciata, sono 500, altri 500 in Australia; 100 sono a Singapore, 150 in Giappone, 50 in Cina, 120 in Sudafrica. Non ne mancano in Vietnam, in Corea e in molti altri Paesi lontani.
Per i ricercatori italiani la decisione di “andare all’estero” non è sempre determinata dall’impossibilità di trovare lavoro in patria; le ragioni che spingono alla mobilità sono spesso complesse e coinvolgono una serie di fattori personali, culturali e professionali, non ultimo il push-factor di un’ottima preparazione universitaria, che apre le porte del mondo.
“I fattori che sostengono la mobilità degli italiani sono diversi, ma abbastanza condivisi con i migranti di alto livello europei: maggiori retribuzioni, opportunità di carriera, accesso ai finanziamenti, migliori infrastrutture di ricerca”, spiega Carolina Brandi dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Cnr, che si occupa da molti anni di studiare le immigrazioni e le emigrazioni altamente qualificate. “La mobilità è associata a sviluppo professionale e miglioramento nelle prestazioni accademiche del ricercatore, sebbene la causalità sia difficile da stabilire. Una metà dei ricercatori considera negativa per il Paese la perdita di competenze dei migranti, un’altra metà considera importante il ritorno che ne segue, con l’inserimento in un circuito scientifico internazionale e la possibilità partecipare a importanti progetti”.
Durante la pandemia, tra partenze e ritorni, i flussi si sono fatti molto più complessi, con criticità e opportunità. La pandemia è stata per molti ricercatori espatriati l’occasione per ripensare alla scelta fatta di emigrare, magari per sfruttare le agevolazioni previste dall’art. 44 del D.L. n. 78/2020 che garantisce a ricercatori e docenti che rientrano un abbattimento del reddito imponibile del 90%. Un’indagine svolta dal Centro Studi PwC nel pieno della pandemia (“COVID-19, L’impatto sui giovani talenti”) ha rilevato che 1 talento su 5 pensava al rientro, anche per avvicinarsi alla famiglia.
Nell’ultimo bando 2021 Erc starting grant, tuttavia, dei 58 italiani vincitori - secondi in Europa, dietro i tedeschi (67) e davanti a francesi (44) e olandesi (27) - solo 28 realizzeranno il loro progetto in Italia, tutti gli altri lavoreranno all’estero.
Occorrono maggiori opportunità per chi vuole rientrare dall’estero. Internazionalizzare sempre più il nostro sistema della ricerca e dell’innovazione è oggi un obiettivo primario del Ministero della ricerca: “Grazie alla possibilità di unire semplificazioni e riforme al Piano nazionale di ripresa e resilienza viviamo un momento magico per risolvere il problema della cosiddetta fuga dei cervelli", ha dichiarato la ministra Messa.
Per fornire strumenti di confronto e proposte di sviluppo per le politiche scientifiche del nostro Paese, l’Ufficio IX della Direzione generale per la promozione del sistema paese (Politiche di cooperazione scientifica e tecnologica bilaterale) del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e il Cnr-Irpps hanno sottoscritto un protocollo d’intesa per collaborare a uno studio internazionale sull’emigrazione dei ricercatori italiani. Primo passo di questo progetto è stato il varo di un’indagine online, al quale tutti i ricercatori italiani all’estero sono invitati a partecipare.
Partecipa al Survey sui ricercatori italiani all'estero
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Fonte: Carolina Brandi , Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali, e-mail: carlotta.brandi@irpps.cnr.it