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Secondo stime recenti la popolazione cinese legalmente residente in Italia ammonterebbe a circa 120 mila unità, alle quali si devono aggiungere i clandestini. Una comunità per molti versi chiusa, misteriosa, nonostante la rilevanza dei numeri e delle attività svolte.
Per analizzare meglio questo tema, si è svolto a Firenze un convegno dal titolo 'La globalizzazione e la piaga del lavoro forzato, clandestino e minorile: il caso Cina', organizzato dalla Laogai Research Foundation Italia. L'associazione, come riferisce il presidente Toni Brandi, si occupa della "difesa dei diritti dei lavoratori, dei contadini e dei detenuti" nei campi di lavoro cinesi, ma anche delle realtà imprenditoriali attivate all'estero da emigrati cinesi.
Il caso di Prato, cittadina molto attiva nell'industria tessile, è in tal senso eclatante. I dati mettono in evidenza come esista una comunità di circa 30.000 immigrati, inserita nel settore con 3.519 imprese, ovvero il 41,9% del totale del comparto. Imprese che spesso operano ai limiti della legalità, come attestano le operazioni delle forze dell'ordine sul territorio e il dato fornito da Silvia Pieraccini, giornalista del Sole-24 Ore e autrice di 'L'assedio cinese', secondo cui il 95% delle aziende opera nell'illegalità.
Anche in considerazione di questi dati, in Parlamento, è stata presentata una proposta di legge che prevede il divieto del commercio e dell'importazione di merci prodotte mediante l'impiego di lavoro coatto. L'intento non è solo quello di promuovere un'estensione della tutela dei diritti dei dipendenti, ma anche di tutelare la competitività delle nostre imprese, danneggiate da una concorrenza sleale.
Emanuele Grimaldi