Focus: Piano piano

A volte gli esperimenti sono lunghi

Batteri
di Alessia Famengo

L’osservazione dei fenomeni planetari e di natura geologica sono esempi abbastanza comuni di esperimenti a lungo termine, perché monitorano fenomeni su scale temporali ben oltre la durata della vita umana e si basano su dati acquisiti dai nostri predecessori, come Galileo con le macchie solari. Tuttavia, nei diversi ambiti scientifici, dall’agricoltura all’astrobiologia, esistono anche esperimenti lunghi le cui condizioni sono progettate e definite dall’uomo. Alessia Famengo dell’Istituto di chimica della materia condensata e di tecnologie per l’energia del Cnr, fornisce alcuni esempi di “esperimenti lunghi”, noti alla comunità scientifica e attraverso i quali è stato e sarà possibile acquisire, in maniera quantitativa, riproducibile e continua, dati importanti per lo studio di sistemi complessi come le piante o di microorganismi come i batteri

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“Gli esperimenti più lunghi condotti finora ci ricordano che la scienza è una maratona, non uno sprint” scrive Brian Owens nel suo articolo “Long-term research: Slow Science”, pubblicato sulla rivista “Nature” nel 2013.

Ma quanto può durare un esperimento scientifico? Dipende. Dai dati che si vogliono raccogliere, dalle procedure coinvolte nella sperimentazione e, ovviamente, dal tipo di fenomeno che si vuole osservare. Owens cita come esempi di esperimenti lunghi l’osservazione delle macchie solari, in corso dal 1613 a partire da Galileo, e dell’attività sismica del Vesuvio, iniziata nel 1841 dal più antico osservatorio al mondo, l’Osservatore Vesuviano. Giusto qualche anno prima della pubblicazione de  ”La ginestra o il fiore del deserto” di Giacomo Leopardi, le cui strofe descrivono proprio “lo sterminator Vesevo”.

Se questi fenomeni non possono essere manipolati - è abbastanza improbabile allo stato attuale riuscire a modificare l’attività solare o quella di un vulcano - esistono esperimenti lunghi ideati dall’uomo che, oltre all’osservazione del fenomeno e alla registrazione dei dati, ne decide parametri e condizioni al contorno. Gli esperimenti lunghi sono importanti per chi si occupa di ecologia. Processi lenti come l’adattamento evolutivo degli esseri viventi rispondono, infatti, a condizioni ambientali dinamiche e rumorose, spesso soggette a fluttuazioni su scale temporali molto brevi, che possono confondere le carte e “nascondere” agli occhi del ricercatore il “vero” andamento nel tempo. Tra i più menzionati il “Park Grass Experiment”, lo studio dell’effetto di fertilizzanti inorganici e letame sulle rese delle coltivazioni comuni come orzo, grano e legumi, iniziato nel 1856 dal magnate dei fertilizzanti John Lawes assieme al chimico Henry Gilbert e tuttora in corso, ovviamente con le opportune modifiche. Sebbene non fosse stato pensato come un esperimento sul lungo termine, i ricercatori capirono che, oltre alla resa, anche la composizione delle varie specie di colture poteva essere influenzata dai fertilizzanti, e questo probabilmente si manifestava dopo decenni: era (ed è), dunque, fondamentale registrare una catena continua di dati e fornire stimoli che tengano conto delle variazioni ambientali per capire il reale effetto dei fertilizzanti inorganici. Il Rothamsted Research Center è l’attuale stazione di ricerca sull’agricoltura che continua a elaborare dati e modelli dal Park Grass.

Campo di grano

Per chi riuscisse a essere presente, il 30 giugno del 2514 ci sarà l’ultimo test del “500-Year Microbiology Experiment” sulla sopravvivenza dei microbi in condizioni di disidratazione, iniziato nel 2014. Progettato da Charles Cockell assieme ai colleghi dell’Università di Edinburgo (UK) e dell’Institute of Aerospace Medicine, Radiation Biology Department del German Aerospace Center l’esperimento testa e quantifica la sopravvivenza di microbi disidratati, simulando quindi condizioni estreme che possono essere presenti in un ambiente desertico o all’interno di un veicolo spaziale. Come spiegato da Cockell in “A 500-year experiment” pubblicato su “Astronomics & Geophysics” nel 2015, è noto come i microbi, in stato di riposo, siano in grado di sopravvivere sul deserto, nelle rocce, nelle profondità terrestri, nel permafrost e, potenzialmente, anche all’interno di veicoli spaziali. Tuttavia, mancava uno studio sistematico e controllato sulla sopravvivenza di queste forme di vita nei secoli. L’esperimento è stato progettato per rivelare i meccanismi molecolari che portano alla morte dei microbi Bacillus subtilis e Chroococcidiopsis sp., essiccati a una concentrazione definita e sigillati all’interno di capsule in vetro contenenti gel di silice come essiccante. Il campionamento viene fatto per i primi 24 anni, aprendo ogni due anni un set contenente tre capsule, poi si prosegue con un set ogni 25 anni per i rimanenti 475 anni. I vial (flaconi) in vetro sono racchiusi all’interno di una scatola in legno di quercia: una scatola si trova all’Università di Edimburgo, la seconda al Museo di Storia Naturale di Londra. Inoltre, ciascun set esiste in due repliche: la prima dentro una scatola di carta, la seconda in un contenitore piombato, per ridurre l’effetto della radiazione di fondo di origine geologica per testare l’ipotesi che le radiazioni emesse dalla crosta influenzino il danneggiamento molecolare.

Di minor impatto rispetto ai due descritti sopra, il “Pitch drop experiment” - esperimento della goccia di pece - in corso da 98 anni all’Università del Queensland a Brisbane, è tra i più citati dai media che si occupano di divulgazione. È stato ideato nel 1927 dal professore di fisica Thomas Parnell per spiegare ai suoi studenti il comportamento della pece, residuo della distillazione del catrame, che appare come un solido scuro, ma che in realtà è un liquido a elevatissima viscosità. Se fatta passare attraverso un imbuto, la pece cade alla velocità di una goccia ogni 6-12 anni. Pur non portando a risultati per così dire “importanti” per la comunità scientifica, l’esperimento è stato oggetto di premio IgNobel nel 2005, come riportato sul numero di “Nature” 437 del 2005. Può essere considerato a tutti gli effetti un esempio di “citizen science”: una web cam, infatti, riprende l’esperimento 24 ore su 24, permettendo a tutti di monitorare in tempo reale la goccia di pece al link  http://thetenthwatch.com/. L’ultima goccia è caduta nel 2014 e finora nessuno è mai stato testimone dell’evento in tempo reale.

Fonte: Alessia Famengo, Istituto di chimica della materia condensata e di tecnologie per l’energia, alessia.famengo@cnr.it