Focus: Piano piano

Il lungo tempo geologico del petrolio

Petrolio
di Alessandro Frandi

La formazione del petrolio si inserisce nei tanti processi che caratterizzano il ciclo del carbonio “lento” o geologico. La lentezza o anche il cosiddetto tempo “geologico” assume un ruolo fondamentale, come spiega Chiara Boschi, ricercatrice dell’Istituto di geoscienze e georisorse del Consiglio nazionale delle ricerche 

 

Pubblicato il

Il processo di formazione del petrolio è lungo e complesso e avviene nel corso di milioni di anni. Inizia con l'accumulo di resti di piante e animali microscopici, fitoplancton e zooplancton nei fondali marini e lacustri, dove questi resti si mescolano con sedimenti di sabbia e argilla. “La formazione del petrolio si inserisce nei tanti processi che caratterizzano il ciclo del carbonio ‘lento’ o geologico. Dove appunto, la lentezza e anche il tempo ‘geologico’ giocano un ruolo fondamentale. Le ricerche sulla formazione e sull’età del petrolio, con l’utilizzo di biomarcatori, ovvero composti organici che caratterizzano le diverse ere geologiche, indicano che ci sono stati alcuni momenti chiave nella scala temporale geologica in cui le condizioni ambientali e geodinamiche della Terra hanno favorito la sua formazione. In particolare, durante l’era Mesozoica (252-66 milioni di anni fa), ma anche nel Cenozoico (<65 milioni) e nel Paleozoico (541- 252 milioni di anni fa)”, spiega Chiara Boschi dell’Istituto di geoscienze e georisorse (Igg) del Cnr. “La formazione del petrolio ha inizio negli oceani caldi e poco profondi che erano presenti sulla Terra milioni di anni fa. Queste condizioni climatiche tropicali hanno favorito una proliferazione di plancton, sia animale (zooplancton) che vegetale (fitoplancton)”.

Sostanzialmente avviene una accumulazione di materia organica. “Negli oceani caldi, la materia organica estremamente piccola - classificata appunto come plancton - cade sul fondo dell'oceano, una volta morta. Il plancton è costituito da animali, chiamati zooplancton, o da piante, chiamate fitoplancton di varie dimensioni, da pochi micron a centimetri. Questo materiale si deposita sul fondo dell'oceano e si mescola con sedimenti inorganici trasportati dai fiumi. Questo processo porta alla formazione di strati ricchi di materia organica che si inseriscono nel ciclo sedimentario delle rocce”, continua la ricercatrice.

Ma come si comportano i sedimenti nel corso del tempo? “Nel corso dei milioni di anni, i resti organici insieme ai sedimenti inorganici sono sepolti sotto altri strati che via via si vengono a formare, creando una spessa coltre che li intrappola in una sequenza sedimentaria. La pressione crescente e le temperature elevate, dovute alla profondità, innescano una trasformazione graduale del materiale organico”, chiarisce l’esperta. “La metamorfosi di questi resti è influenzata da diversi fattori: il grado di calore, la pressione crescente e il tipo di organismo originario. In condizioni moderate, si evolvono in petrolio grezzo. Ma se l'aumento delle temperature è maggiore, e soprattutto se il plancton è dominato da materia vegetale, si forma il gas naturale”.

La trasformazione della materia organica deposta in cherogene, una sostanza cerosa che rappresenta un passaggio intermedio cruciale nella formazione del petrolio e del gas naturale, avviene durante la fase di seppellimento e compattazione, quando i resti organici sono sottoposti a pressione e calore crescenti. Il processo può richiedere da centinaia di migliaia a milioni di anni. “Nel tempo i sedimenti si solidificano, passando da uno stato incoerente a uno roccioso chiamato ‘roccia madre’. Durante questo processo, definito diagenesi, i sedimenti perdono l’acqua che era intrappolata e si compattano. Dopo la diagenesi, lo strato compatto e roccioso sprofonda lentamente sotto il peso di nuovi sedimenti, matura e si trasforma in cherogene, il precursore del petrolio”, continua Boschi. “Il cherogene è una miscela complessa di composti organici costituiti da carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto e zolfo, ma la sua composizione può variare a seconda del tipo di roccia sedimentaria in cui si trova e delle condizioni in cui si è formato. Il cherogene è uno dei sink (deposito) di carbonio più importanti nel ciclo globale del carbonio e rappresenta di gran lunga il più grande pool di materia organica sulla Terra: 1016 tonnellate di C (carbonio) rispetto a circa 1012 tonnellate di C nella biomassa vivente. Le proprietà del cherogene sono una caratteristica determinante per il processo di generazione di petrolio e gas. Il cherogene è suddiviso in tre tipi, in base alla sua composizione elementare e alla sua origine: il tipo I che si forma da un residuo lacustre-algale e presenta un elevato rapporto idrogeno/carbonio (H/C - idrogeno/carbonio); il tipo II si forma principalmente dal plancton marino ed è caratterizzato da un rapporto H/C più basso, e il tipo III proviene da un apporto terrestre di piante superiori”.

Petrolio

Ecco che, se le condizioni di temperatura e pressione sono adatte, il cherogene si trasforma in petrolio. Questo processo richiede milioni di anni ci conferma Boschi: “Il processo di trasformazione del cherogene in petrolio è un processo chimico estremamente lento, che avviene con energie di attivazione di circa 50-60 kcal/mol e può richiedere dai 10 ai 100 milioni di anni. Con l'aumento della temperatura, i legami chimici delle grandi molecole che compongono il cherogene si rompono e si trasformano in molecole più piccole che costituiscono il petrolio. Ciò richiede una temperatura di 80-150◦C, a 2-4 km di profondità, per un lungo periodo geologico: questa viene anche definita la ‘oil window’ ovvero la finestra nella quali si hanno le condizioni di formazione del petrolio. La conversione del cherogene in petrolio è quindi un processo che richiede sia temperature più elevate di quelle che si trovano alla superficie della terra, sia un lungo periodo di tempo geologico. La ‘maturità’, ovvero il grado di trasformazione termica del cherogene in idrocarburi o in gas e grafite (a temperature più alte), dipende da molti fattori, in primo luogo il tempo, ma anche la temperatura, la pressione e, infine, la presenza di minerali o altre sostanze che aumentano la velocità di reazione (catalizzatori) o che la inibiscono”.

Il petrolio rimane intrappolato in “strutture geologiche”, trappole di tipo strutturale o stratigrafico, dove può accumularsi in grandi quantità, come illustra in dettaglio l’esperta del Cnr-Igg: “Ci vogliono tanti ‘ingredienti’ per intrappolare il petrolio, un liquido meno denso dell’acqua che tende a migrare fino a che non incontra una barriera naturale che lo trattiene. Non dovete pensare che il petrolio si inserisca in cavità ‘vuote’ dentro gli strati rocciosi, ma piuttosto in rocce ‘spugna’. Il primo nostro ingrediente, infatti, è uno strato di rocce ‘reservoir’ (serbatoio). Il petrolio, così come il metano o l’idrogeno, è ospitato nei pori delle rocce, ovvero negli spazi vuoti non occupati dai minerali che, se interconnessi, definiscono la permeabilità delle rocce stesse. La permeabilità è appunto la capacità di una roccia di essere attraversata da un fluido. Una roccia con alta permeabilità è il luogo ideale per ospitare il petrolio: per questo sono chiamate ‘rocce reservoir’, e tipicamente sono sabbie, arenarie e rocce carbonatiche (calcari e dolomie). Ma questo non basta. Abbiamo bisogno di un secondo ‘ingrediente’: una trappola che impedisce al petrolio di fuoriuscire. Le trappole possono essere essenzialmente di due tipi: quelle stratigrafiche, dovute a variazioni nella composizione dei sedimenti che creano una barriera impermeabile, e quelle strutturali. Per spiegare meglio, al di sopra dei sedimenti ‘permeabili’ abbiamo bisogno di uno strato di sedimenti poco permeabile o ‘impermeabile’, che svolge un’azione di barriera al fluido, superiormente e lateralmente. In termini geologici, si definiscono le rocce di ‘copertura’, che tipicamente sono evaporiti - gessi, anidriti, salgemma - e soprattutto le argille. Ma la maggioranza di reservoir di petrolio che sono stati sfruttati in passato, perché più semplici da individuare con indagini geofisiche, si trovano dove si hanno deformazioni tettoniche che hanno fratturato e piegato gli strati di rocce reservoir e rocce di copertura. In questo caso si parla di trappola strutturale, come i diapiri salini europei molto ricchi di idrocarburi”.

Il processo di formazione del petrolio è dunque estremamente lungo: può richiedere dai 10 ai 100 milioni di anni. La quantità di petrolio che si forma dipende da diversi fattori, come la quantità di materia organica iniziale, la temperatura, la pressione e la composizione delle rocce. “Le nostre attuali conoscenze ci indicano che l’età d’oro del petrolio è stata in particolare nel periodo Giurassico, tra i 200 e i 145 milioni di anni fa. Le condizioni termiche, così come l’enorme proliferazione di plancton, ha permesso in questo periodo la formazione di grandi quantità di petrolio sul fondo dell’oceano Tetide, che un tempo separava i paleo-continenti di Laurasia e Gondwana. Ma non è stato l’unico periodo geologico dove le condizioni essenziali per la formazione di grandi giacimenti si sono verificate”, conclude Boschi. “Alcuni studi attuali si stanno concentrando per capire se anche in epoche più recenti si possono essere formati nuovi reservoir. Il petrolio, comunque, è un liquido oleoso costituito da un insieme di idrocarburi, ovvero da un insieme di composti essenzialmente di carbonio e idrogeno, con acqua e altre impurità, che non ha una composizione fissa ma varia in funzione di molti fattori: caratteristiche del cherogene, temperatura di formazione, quantità di tempo di formazione. Quindi non solo la quantità ma anche la qualità del petrolio può variare enormemente”. 

I combustibili fossili rappresentano uno dei più grandi depositi di carbonio profondo del sistema Terra e hanno giocato un ruolo essenziale nello sviluppo della società moderna, fornendo energia e migliorando la qualità della vita. Tuttavia, il loro sfruttamento intensivo ha portato a un massiccio rilascio di carbonio che, originariamente intrappolato nelle profondità della Terra, è stato immesso nell’atmosfera e inserito nel ciclo del carbonio superficiale sotto forma di anidride carbonica, come prodotto della combustione. Lo studio del ciclo del carbonio, profondo e superficiale, è quindi fondamentale per comprendere le conseguenze delle alterazioni causate dalle attività umane e per sviluppare strategie volte a mitigare gli impatti ambientali legati alle emissioni di gas serra.

Fonte: Chiara Boschi, Istituto di geoscienze e georisorse, chiara.boschi@cnr.it

Tematiche