Linguaggio inclusivo e non esclusivo
Lavorare sull’uso delle parole per creare una modalità comunicativa che rispetti le regole grammaticali mettendo in moto, però, adeguamenti linguistici nel rispetto delle diversità e senza escludere nessuno. A esaminare il tema è Loredana Cerbara, ricercatrice dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr e membro del Comitato unico di garanzia dell’Ente
Professore, maestra, vecchio, cancro, handicappata. Parole che sicuramente troviamo nei nostri vocabolari, ma che non per questo sono garanzia di un linguaggio che si adegua ai cambiamenti di una società in continua evoluzione. “La lingua è il risultato di esperienze di lungo periodo derivanti dall’esigenza di comunicare. Se si riscontrano nel linguaggio elementi che non rappresentano in modo coerente ciò che si vuole esprimere è segno che la sedimentazione delle locuzioni in uso ha fatto il suo tempo e si deve mettere in moto un nuovo processo di adeguamento linguistico”, dice Loredana Cerbara, ricercatrice dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Consiglio nazionale delle ricerche e membro del Comitato unico di garanzia dell’Ente (Cug). “Ciò non vuol dire che si può derogare alle regole grammaticali che caratterizzano il buon impiego della lingua e ne standardizzano l’uso in modo che non venga compromessa la comprensione dei testi. Tuttavia, quando la comune sensibilità richiede adeguamenti perché alcune forme lessicali comportano un rischio di esclusione di categorie sociali o quando l’uso di alcuni termini può risultare discriminatorio si mette in atto un processo di adeguamento che agisce nel tempo e che spesso non segue un percorso lineare”.
Parlando di linguaggio inclusivo nel senso del genere, pensiamo agli sforzi per introdurre la neutralità attraverso desinenze innovative: la vocale u, l’asterisco o lettere che non sono presenti nell’alfabeto latino come la famosa schwa, presente nell’Alfabeto fonetico internazionale e rappresentata come una e rovesciata. “Tutti questi tentativi in realtà non concordano con il fatto che la lingua italiana non comprende suoni e valori semantici neutri (come riportano varie argomentazioni dell’Accademia della Crusca) e quindi sono difficili da introdurre nel linguaggio corrente scritto e parlato. Ma se questo fatto rappresenta una difficoltà, nondimeno non è giusto rinunciare a utilizzare una modalità comunicativa che non escluda e non mortifichi veicolando e rafforzando stereotipi e pregiudizi storicamente presenti nel quotidiano agire”, prosegue la ricercatrice. “In altri termini, continuare a parlare in modo che siano sottolineate le differenze di genere, anche rispetto a prevalenze di ruoli e di importanza, può ritardare il processo di modernizzazione sociale e il conseguente raggiungimento della parità. Per questo motivo oggi sono molto diffusi linee guida e vademecum (Agenzia delle entrate, Ente italiano di normazione, diversi enti e atenei pubblici e privati, ecc.), allo scopo di indirizzare la comunicazione al rispetto delle categorie sociali, ma anche della correttezza grammaticale”.
Allo stesso modo, l’inclusività non può non considerare il fatto che le condizioni di fragilità possono essere molteplici, a partire dalla disabilità fino a situazioni di disagio e di esclusione. “La chiave per affrontare questa ulteriore sfida comunicativa è sempre quella di elevare il grado di sensibilità, mettersi in modalità di ascolto delle categorie di destinatari, immaginarne la reazione e facilitarne la comprensione. Il linguaggio inclusivo è un vero e proprio processo evolutivo che si deve giovare anche della collaborazione di ciascuno perché passa attraverso la ricerca di soluzioni alternative che la collettività deve o meno adottare in un confronto continuo, accelerato oggi dall’enorme utilizzo di mezzi di comunicazione sul piano virtuale”, conclude Cerbara. “Così è accaduto per la ricerca di termini neutri, nel tentativo di svincolare la lingua italiana dal patriarcato tradizionale di cui è intrisa, ma è altrettanto difficile e controverso l’uso di termini medici per le patologie o le condizioni di disabilità. Nel caso delle malattie oncologiche si usa spesso il termine ‘tumore’ anziché ‘cancro’, introducendo una imprecisione nella descrizione della patologia ma con l’intenzione di evitare un termine che potrebbe generare un effetto più intenso. Talvolta si preferisce fare ricorso a parafrasi del tipo ‘affetto da un male incurabile’ che, anche se è più vaga, sembra più rispettosa della condizione che viene descritta”.
Fonte: Loredana Cerbara, Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali, loredana.cerbara@cnr.it