Focus: Uguali ma diversi

Inganni d’arte

Falsi arte
di Sandra Fiore

La ricerca scientifica negli ultimi anni ha messo a punto metodologie e strumentazioni usate come valide alleate per contrastare la falsificazione delle opere d’arte, fenomeno che oggi interessa soprattutto il settore della produzione contemporanea. I ricercatori dell’Istituto di fisica applicata “Nello Carrara” e dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale del Cnr spiegano l’uso di tecniche - dal prelievo di microcampioni alle indagini non invasive spettroscopiche - con le quali verificare, ad esempio, la datazione di pigmenti e composti presenti nel manufatto

Pubblicato il

“Ogni società, ogni generazione falsifica ciò che più brama”, scrive Mark Jones nell’introduzione al volume “Sembrare e non essere. I falsi nell’arte e nella civiltà”, di cui è curatore insieme a Mario Spagnol. Pertanto, anche le opere false “delineano l’evoluzione dei gusti con ineguagliabile precisione”, e sono “un indice sicuro dell’esistenza di un fiorente mercato di corrispondenti oggetti originali”. Tali contraffazioni possono dunque essere identificate come una testimonianza socioculturale dell’epoca che le ha prodotte.

La storia dell’arte è ricca di esempi di imitazioni e falsificazioni, fenomeno che ha avuto impulso a partire dal Rinascimento con la “riscoperta” dell’arte classica e la nascita del collezionismo, che richiedeva oggetti preziosi e rari, simboli di uno status sociale da mostrare. In questo panorama vanno però distinte le copie, realizzate anche da grandi artisti del passato come emulazione di modelli eccellenti, veri esercizi di stile confluiti per varie vicende in collezioni private, e i falsi immessi con dolo nel mercato per puro scopo di lucro. Anticamente l’esercizio di imitazione e copiatura era una pratica di apprendistato degli artisti, una “scuola” per acquisire abilità tecniche e di “mimesis” della natura. I Romani erano soliti copiare le sculture greche per la loro perfezione. Nel Rinascimento è esemplare il caso della statua marmorea del “Cupido dormiente”, ormai perduta, eseguita dal giovane Michelangelo intorno al 1496. L’opera, originariamente realizzata per Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, venne successivamente immessa nel mercato antiquariale con l’intermediazione del mercante Baldassarre del Milanese e fatta passare per antica grazie a un procedimento di “invecchiamento” artificiale. Ad acquistarla fu il cardinale Raffaele Riario, tra i più ricchi collezionisti del tempo. Egli, scoperta la truffa, volle conoscere l’autore e colpito dalla sua bravura lo introdusse nell’ambiente artistico romano. Agli inizi degli anni Cinquanta del XVII secolo Luca Giordano, noto per la velocità nel dipingere, si esercitava nella maniera di Albrecht Dürer (1471-1528). Il padre riuscì a vendere come opera del Dürer la “Guarigione dello storpio”, al priore della Certosa di San Martino a Napoli, per 600 ducati. (https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/0300180437).

Scansione MA-XRF del vaso ellenistico citato nel testo (Museo Regionale Interdisciplinare, Catania, inv. n. 10291).

Scansione MA-XRF del vaso ellenistico citato nel testo (Museo Regionale Interdisciplinare, Catania, inv. n. 10291)

Veri falsari furono invece Marcantonio Raimondi (1480-1534), che sulla scia del successo delle incisioni dell’artista tedesco riprodusse alcune copie spacciandole come autentiche, e Giuseppe Guerra, il quale nel 1750, chiamato come restauratore delle pitture di Ercolano presso il re Carlo di Borbone, successivamente vendette falsi reperti a nobili collezionisti e viaggiatori. L’arte contemporanea è tra le più soggette alle falsificazioni - da Modigliani a Burri, da Schifano a Sironi - generate dalla elevata remuneratività del mercato.  Le stime parlano chiaro sull’entità di questa attività lucrosa. Nel 2020, come riportato dall’agenzia stampa Agi, “Sono state sequestrate 1.547 opere contraffatte: falsi di arte contemporanea (ma non solo) che, qualora immessi sul mercato, avrebbero fruttato alle organizzazioni criminali oltre 415 milioni di euro”.

Per contrastare questi affari illeciti oggi possiamo ricorrere anche a indagini tecnico/scientifiche, valide alleate di studi sullo stile, sulla storia conservativa e di tipo archivistico. “Nell'ambito delle tecniche di indagine non invasiva rientrano sia quelle di imaging che forniscono informazioni su aree estese della superficie dell’opera, sia puntuali, focalizzate su ristrette porzioni del manufatto, fino ad alcuni centimetri quadrati di superficie; per attribuzioni e indagini forensi, sono maggiormente usate la spettroscopia di fluorescenza indotta da raggi X (XRF), quella Raman e la spettroscopia di riflettanza nelle regioni dell’ultravioletto, visibile e vicino infrarosso, mediante uso di fibre ottiche (FORS)”, spiega Marcello Picollo dell’Istituto di fisica applicata “Nello Carrara” (Ifa) del Consiglio nazionale delle ricerche.  Tali tecniche aiutano a fare chiarezza sui pigmenti, coloranti e altri tipi di sostanze, in modo da verificare la presenza di composti non compatibili con il periodo storico di attribuzione dell’opera. Questi strumenti possono indirizzare l’esperto verso precise zone dell’opera dove è necessario effettuare il prelievo di microcampioni per approfondimenti. “Tra i pigmenti bianchi moderni quelli più importanti sono stati il bianco di zinco (ZnO) e il litopone (costituito da solfato di bario, BaSO4, e solfuro di zinco, ZnS) resi disponibili nell’Ottocento e due biossidi di titanio (TiO2), nelle forme cristalline anatasio e rutilo, nel Novecento. Questi materiali sono stati ampiamente usati sia per ritocchi e integrazioni pittoriche su opere precedenti sia per realizzare falsi. La possibilità di analizzare varie campiture dell’opera e acquisire dati FORS su aree diverse consente di avere una buona rappresentatività dei materiali presenti e di dare un supporto importante allo studio del manufatto artistico”, conclude Picollo.

Celebri nella storia delle falsificazioni sono i casi delle ceramiche di Centuripe (Enna), in particolare dei sette tondi con ritratti policromi, di presunta età ellenistica, donati a Mussolini nel 1939 e custoditi presso il Museo archeologico di Napoli. È ormai noto che essi furono realizzati da un abile falsario, Antonino Biondi, vissuto in questo centro siciliano. A Giacomo Biondi, ricercatore dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale (Ispc) del Cnr, che reca lo stesso cognome del falsario pur non essendone parente, si deve il ritrovamento di un taccuino di Antonino: la testimonianza non lascia dubbi sulla paternità dei falsi di Napoli e di altri musei. Invece Paolo Romano, dello stesso Istituto Cnr, lavorando presso il Landis (Laboratorio di analisi non distruttive) di Catania, grazie all’imaging a raggi X, ha potuto confermare l’originalità di un vaso ellenistico proveniente sempre da Centuripe, rilevando la presenza di un pigmento azzurro a base di rame tipico di quell’epoca.

Fonte: Marcello Picollo, Istituto di fisica applicata "Nello Carrara", m.picollo@ifac.cnr.it; Giacomo Biondi, Istituto di scienze del patrimonio culturale (Ispc), giacomo.biondi@cnr.it; Paolo Romano, Cnr-Ispc, francescopaolo.romano@cnr.it 

Particolare del taccuino di A. Biondi e di un vaso del museo di Napoli a confronto

Particolare del taccuino di A. Biondi e di un vaso del museo di Napoli a confronto

Tematiche
Argomenti