Focus: Svanire

Più ricchezza, meno figli

Donna incinta
di M. F.

Man mano che cresce il livello socio-economico e culturale l’umanità tende a diminuire di prolificità, fino a compromettere l’equilibrio demografico e il proprio lo stesso futuro. Lo sappiamo bene in Italia, Paese purtroppo record per questa tendenza. Ne parliamo con il demografo del Cnr Corrado Bonifazi

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Un “SOS per il futuro dell’Italia” è stato lanciato dalla terza edizione degli Stati generali della natalità, tenuti lo scorso maggio a Roma con numerosi ospiti tra i quali Papa Francesco e il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e il presidente della Conferenza episcopale italiana Matteo Maria Zuppi, numerosi esponenti del Governo e delle opposizioni, i manager di molte aziende pubbliche e private, i rappresentanti della formazione e dell’informazione. Una presenza che con la sua ampiezza e autorevolezza ha confermato la drammaticità della situazione e la rilevanza strategica per il Paese di adottare politiche che puntino a una soluzione efficace nei tempi più rapidi possibili.

Il 2022 ci ha consegnato dati allarmanti sull’andamento della popolazione italiana: 719 mila morti in confronto a 393 mila nati, con una popolazione diminuita di 1,5 milioni di persone rispetto al 2014. È una crisi, il cosiddetto “gelo” o “inverno” demografico, che sta colpendo l’Occidente ma in particolare l’Italia. Gli studiosi segnalano la necessità di raggiungere quota 500 mila nascite entro il 2023 e 1,60 figli per donna entro il 2030, rischiamo di perdere 11 milioni di residenti nei prossimi 40 anni, con un numero di decessi pari a 2,5 volte le nascite. I temi oggetto di dibattito sono molti e complessi: come sostenere il sistema di welfare, il contributo e i limiti dell’immigrazione, le difficoltà nel conciliare maternità e lavoro. Agli Stati generali se n’è parlato con - tra gli altri - Gigi De Palo, presidente della Fondazione per la natalità, e Gian Carlo Blangiardo, già presidente Istat.

“Da anni ci battiamo per portare il tema della denatalità all’attenzione della politica e al centro del dibattito pubblico. Lo abbiamo fatto in passato, quando questo problema sembrava drammaticamente marginale nell’agenda politica del nostro Paese, e continuiamo a farlo oggi, in un momento in cui finalmente l’attenzione dei cittadini e delle forze sembra avere colto la portata del problema e l’impellenza di soluzioni concrete”, ha sottolineato De Palo. In realtà la questione non è esclusivamente italiana, tanto che è stata citata in un recente documento del Consiglio europeo, anche se l’Italia, purtroppo, rappresenta un caso tanto al limite da far paventare una sorta di “estinzione”. Ma come mai tutte le nazioni, una volta giunte a un migliore livello di sviluppo socio-economico, tendono a fare meno figli? È come se si perpetrasse il modello tradizionale della prolificità tesa a fornire “manodopera” per il lavoro familiare, la cui ipotetica funzione era però legata a società ed economie ormai scomparse da tempo quasi in tutto il mondo.

Mamma con neonato

“La riduzione della fecondità, ovvero del numero dei figli che ogni donna mette al mondo durante la sua vita riproduttiva, è una delle principali caratteristiche dell'evoluzione delle popolazioni umane. Pur con diversità nei tempi e nelle caratteristiche, non c'è Paese che si sia sottratto a questa tendenza, manifestatasi in diversi stati europei nel corso dell’Ottocento”, conferma Corrado Bonifazi dell’Istituto di ricerche sulle popolazioni e le politiche sociali (Irpps) del Cnr. “Restano ampie differenze, il Tasso di fecondità totale (Tft) a livello mondiale è stato infatti stimato dalle Nazioni Unite per il 2021 in 2,3 figli per donna, ma raggiunge i 4,6 nell’Africa Sub-sahariana. Nel complesso, sempre secondo queste stime, due terzi delle persone vivono ormai in Paesi con un tasso di fecondità inferiore a 2,1 figli per donna. Un valore che in alcuni Paesi ad alto reddito come la Corea del Sud, il Giappone, la Spagna, l'Italia è inferiore a 1,3”.

Ma anche nei Paesi dove il Tft è più elevato, la tendenza alla diminuzione appare chiara, si amplia cioè la parte del mondo meno sviluppato, ma spesso in rapida crescita, con valori inferiori al livello che assicura l’equilibrio demografico della popolazione. “Un processo di cui la Cina è l'esempio più importante, con un tasso che la pandemia di Covid-19 ha portato addirittura a 1,16, al di sotto quindi anche dei livelli raggiunti in alcuni paesi sviluppati”, prosegue il ricercatore. “Le ragioni di una tendenza che si configura come una delle poche regolarità in campo demografico sono diverse. In primo luogo, la medicina mette a disposizione strumenti anticoncezionali sempre più sicuri ed efficaci, consentendo a donne e coppie, soprattutto dei Paesi a reddito più elevato, un maggiore controllo del processo riproduttivo. Nei Paesi più poveri invece l’accesso a una contraccezione moderna è ridotto: ma anche la parte di mondo vincolata a un regime di fecondità per così dire 'naturale' va sempre più restringendosi”.

È dunque la capacità di controllare la fecondità che si correla allo sviluppo socio-economico e culturale, determinando l’inversa proporzionalità tra questo e l’incremento della natalità. Ma non solo: “Si sono però aggiunte una serie di trasformazioni sociali e culturali che hanno modificato profondamente il ruolo delle donne e della procreazione nella vita degli individui e delle coppie. Un altro processo più evidente nei Paesi occidentali, dove si è avviato negli ultimi decenni del Novecento e che ha prodotto un radicale mutamento, conosciuto come ‘Seconda transizione demografica’. Un cambiamento che appare strettamente legato a tutte le altre profonde modifiche comportamentali e sociali registrate in questi anni”, conclude il demografo. “Sposarsi e fare dei figli non è più l’unica opzione disponibile, ma è diventato uno dei percorsi che si può decidere o meno di intraprendere. Allo stato sociale e alla politica il compito di trovare strumenti di intervento che permettano di mettere insieme esigenze e desideri che rischiano di risultare divergenti e di difficile realizzazione”.

Fonte: Corrado Bonifazi, Istituto di ricerche sulle popolazioni e le politiche sociali, corrado.bonifazi@irpps.cnr.it

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