Idee di successo? Meglio se sono segrete o anormali
di Marco FerrazzoliIn una cultura caratterizzata da flussi di informazioni frenetici, frettolosi e da “camere dell'eco” si registrano processi di polarizzazione, imitazione, manipolazione. Un problema amplificato dai social network e dai motori di ricerca, ma che rimanda a riflessioni antiche, a partire da Aristotele. Detto ciò, non esiste una formula universale per prevedere cosa diverrà virale nella comunicazione
Studiosi e intellettuali si sono sempre interrogati sulle ragioni per le quali la storia prende un certo corso, un'ideologia ha successo e un'altra meno, un sistema politico regge solidamente per un periodo anche lunghissimo e poi crolla improvvisamente. Nel finale degli ultimi tre secoli tale riflessione ha prodotto opere come il monumentale 'Declino e caduta dell'impero romano' di Edward Gibbon, 'La legge della civiltà e della decadenza' di Brook Adams (recentemente pubblicato in Italia da Mimesis), 'Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni' di Jared Mason Diamond. Da qualche decennio, poi, all'attenzione per i grandi rivolgimenti epocali si va affiancando quella per fenomeni di successo esplosivo ma estemporaneo, contingente, talvolta effimero. La cultura 'pop', cioè della popolarità, in qualche misura è ormai la cultura per antonomasia: uno dei suoi profeti, Andy Warhol, è celebrato in questo periodo con un'esposizione a Roma e la 'viralità' è ormai un termine e un concetto centrale del dibattito socio-culturale. Il dominio delle civiltà è stato in parte surrogato da like e influencer.
Emanuele Arielli e Paolo Bottazzini in 'Idee virali' (Il Mulino) si pongono la domanda sul perché alcune idee si diffondano nei flussi di informazioni frenetici, nelle campagne di disinformazione, nelle “bolle” e “camere dell'eco” tipici del nostro tempo usando molti spunti della Sna (Social Network Analysis). Da un lato, gli autori evidenziano che contagio e rimbalzo delle notizie caratterizzanti gli odierni processi di polarizzazione comunicativa non sono affatto inediti, solo che si ricordi l'“effetto Werther”, l'ondata di suicidi giovanili associata al romanzo di Goethe, l'idea di Aristotele secondo cui “imitare è un istinto di natura”, la 'Psicologia delle folle' di Gustave Le Bon del 1895, gli studi di Georg Simmel e Walter Benjamin, di Robert Merton sull'”effetto san Matteo” e sui “neuroni specchio”. D'altro canto, il potere manipolatorio dei social network è innegabile e appare connaturato alla loro natura di “strumento di scambio democratico e di libertà d'espressione del singolo”, con casi politici importanti come il referendum sulla Brexit e le elezioni presidenziali americane del 2016, come conferma l'affaire che ha visto protagonisti tra gli altri Steve Bannon e Cambridge Analytica (nelle tre settimane dopo le presidenziali Usa, Google ha censito circa 600 mila articoli legati alla stringa “Trump fake news”). Del resto, “in modo simile ma più complesso funzionano i motori di ricerca come Google” con l'algoritmo del PageRank, un metodo “obiettivo e meccanico” che “consiste nel considerare più importanti i siti a cui altri siti fanno riferimento”.
Per questo alcuni considerano un'utopia la visione della rete “come uno spazio di scambio pubblico in cui il sapere collettivo si accrescerebbe attraverso un libero mercato delle idee” e privilegiano preoccupazioni pessimistiche quali quelle del filosofo Byung-Chul Han, secondo cui “la rivoluzione digitale in corso porterà alla perdita di autonomia individuale e di capacità di riflessione critica” e “l'immediatezza provoca stati di eccitazione instabili e momentanei che non consentono di sviluppare una reale riflessione critica”. Le nostre risorse attenzionali sono limitate (per questo è così importante l'agenda setting) e il premio Nobel Herbert Simon già mezzo secolo fa sottolineava che “la ricchezza di informazione crea povertà di attenzione e la necessità di allocarla in modo efficiente”: la tendenza, secondo lo psicologo Daniel Kahneman, un altro Nobel, è verso l'elaborazione rapida e automatica delle informazioni, a danno della riflessione cosciente, meditata e lenta. Non a caso, il 59% degli articoli condivisi sui social media in realtà non viene letto e un'analisi della Cornell University sul cinema hollywoodiano indica che la durata media di un'inquadratura è diminuita da circa 12 secondi nel 1930 ai 2,5 attuali. Il che porta a quello che un terzo premio Nobel, Nikolaas Tinbergen, chiama “stimolo supernormale” o superstimolo.
Detto ciò, come si legge nelle 'Notes on Contagious Media': “Prevedere cosa sarà contagioso è molto difficile” e “molti fenomeni mediatici contagiosi sono frutto del caso”. A incidere nel successo di un messaggio possono essere infinite variabili, dagli influenzatori e opinion leader studiati da Paul Lazarsfeld ai “sei gradi di separazione” di Stanley Milgram. Paradossalmente, tra i contenuti più destinati a diffondersi ci sono i segreti alimentati da dicerie complottiste: come scriveva Manzoni, “Così, d'amico fidato in amico fidato, il segreto gira e gira per quell'immensa catena tanto che arriva all'orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai”. Anche “l'antiabitudine”, come osserva Walter Siti in ambito letterario, i pensieri controintuitivi, i fatti fuori dall'ordinario ma non del tutto assurdi, le leggende metropolitane agevolano le interazioni nelle camere dell'eco, specie se influiscono sulle emozioni in senso peggiorativo. Per questo social e media non sono solo uno specchio della società - come sostiene Mark Zuckerberg - ma un amplificatore deformante.
titolo: Idee virali
categoria: Saggi
autore/i: Arielli Emanuele, Bottazzini Paolo
editore: Il Mulino
pagine: 216
prezzo: € 14.00