Faccia a faccia: Ricerca

Servire ai giovani un “patto forte”

la ministra dell’Università e ricerca Maria Cristina Messa
di Marco Ferrazzoli

Intervista con il ministro dell’Università e ricerca Maria Cristina Messa, a margine della presentazione della "Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia". Per parlare anche di donne, ambiente, economia e Pnrr. "L’Italia può essere un Paese attrattivo, ha una qualità di vita migliore, si tratta però di associare, alle bellezze naturali e artistiche, la possibilità di lavorare e mettere a frutto le proprie competenze. Nell'Europa della ricerca siamo forti ma non sappiamo fare rete"

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Il ministro dell'Università e della ricerca, Maria Cristina Messa, assieme ad altre personalità, è intervenuta alla presentazione, presso la sede centrale del Consiglio nazionale delle ricerche, della terza edizione della "Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia‐Analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia" (link al comunicato). Abbiamo colto l’occasione per parlare anche di donne e facoltà Stem (Scienza, tecnologia, ingegneria, matematica), delle recenti modifiche costituzionali a tutela dell’ambiente, di rapporti tra mondi della ricerca, del lavoro e dell’economia e del Pnrr (riquadro del video). In sostanza, per parlare del futuro del nostro Paese, quello che offriremo alle nuove generazioni. Temi su cui il ministro risponde anche in base alla sua esperienza di ricercatrice, docente, rettrice e manager.

La relazione presenta buone notizie in termini di maggiori investimenti, brevetti, produttività scientifica, ma anche elementi critici. Rispetto all’Europa diamo più fondi di quanti riusciamo a prenderne ed è scarso anche il coordinamento dei progetti. Siamo bravi ma ci muoviamo troppo spontaneamente?

Questa è una consuetudine italiana, i direttori generali europei della ricerca ce lo dicono spesso: tendiamo a proporre progetti singolarmente, senza fare gruppo e costituire una massa critica significativa. Questo è un meccanismo difficile da smontare, per varie ragioni: intanto, l'Italia per anni non ha avuto grandi finanziamenti nazionali e quindi ci si è abituati a muoversi autonomamente, per cercare di ricavare quanto possibile a livello europeo; inoltre, non fare rete e agire in maniera individuale è nel nostro Dna, fa parte della tradizione nazionale. Credo però che i programmi Horizon, quello del 2020 e Horizon Europe, abbiano evidenziato la necessità di fare sistema e prodotto dei passi avanti. Penso per esempio alle alleanze fra le università per quanto riguarda le tecnologie abilitanti, che adesso stimoleremo ulteriormente con il Pnrr, e alla fisica, dove i ricercatori riescono sempre a coagularsi. Ci sono degli esempi virtuosi che vanno rafforzati.

Altro elemento critico italiano, lo squilibrio Nord Sud

Questo è un punto dolente ma sfaccettato. Il Sud ha grandi potenzialità e quindi possiamo tendere a un maggiore equilibrio, potenziando la credibilità che la ricerca meridionale merita, anche se a volte viene danneggiata da problemi che con il mondo scientifico non hanno nulla a che spartire. Bisogna far emergere e rendere sistematici i centri e le aree di ricerca più forti, che ci sono e sono tanti: dal Cnr di Lecce, a Napoli, alla Sicilia.

I dottorati industriali in collaborazione tra Cnr, Confindustria e atenei sono una strada utile per rafforzare l'alleanza tra mondi della ricerca e delle imprese?

Lo sono, tanto che nella pubblicazione del nuovo regolamento dei dottorati di ricerca, uscito in Gazzetta a fine anno scorso, abbiamo dedicato un capitolo proprio ai dottorati industriali, perché avessero una facilitazione amministrativa. Abbiamo mitigato alcune complicazioni, sia nella scelta che nel coinvolgimento dell'industria, agevolando la possibilità di fare rete tra atenei ed enti di ricerca. I dottorati industriali devono poggiare su più pilastri, non possono essere esclusiva di una singola l'università, e devono mantenere lo spirito del dottorato, che è quello di fare ricerca ad alto livello: non devono essere intesi come un mero passaggio per andare a “produrre” in un laboratorio dell'industria. L’obiettivo è sviluppare ricerca, un investimento che poi torna anche come interesse aziendale.

La fiducia verso questo investimento in formazione e ricerca, in Italia, sembra ancora scarsa: pochi iscritti, laureati e dottori rispetto ai Paesi avanzati e alla media Ue. Come mai?

Dobbiamo guardare la tendenza. A inizio secolo scorso partivamo con un paese quasi analfabeta, in una situazione decisamente svantaggiata: da allora la curva è salita decisamente, ma si ferma a un certo livello. Di nuovo, paghiamo vari aspetti, in primo luogo di credibilità del sistema. Abbiamo sentito definire per anni le lauree come “pezzi di carta” e questo ha influito sulla mentalità delle famiglie. Chiaramente non è vero, magari c'è stato solo qualche titolo di studio che era un pezzo di carta, ma i casi negativi si generalizzano e danneggiano la parte positiva della formazione. In secondo luogo, in Italia c'è un sistema di relazione, tra chi forma e chi utilizza le risorse formate, che non le valuta quanto in altri Paesi. Quando i nostri laureati non sono valorizzati, anche economicamente, vanno all'estero, dove trovano più risorse e migliori condizioni contrattuali. Per incidere su questo ci vuole un patto forte fra mondo del lavoro, dell'accademia, della ricerca, che dia a queste risorse il giusto riconoscimento.

Queste misure potrebbero aiutarci a contenere il saldo negativo della mobilità intellettuale, che ci fa portare all'estero più ricchezza di quanta riusciamo ad attrarne?

Sì, dobbiamo invertire questa tendenza. L’Italia può essere un Paese attrattivo, ha una qualità di vita migliore rispetto a tanti Paesi, si tratta però di fare un salto di qualità e associare, alle bellezze naturali e artistiche, la possibilità di lavorare e mettere a frutto le proprie competenze. L'Italia delle università e della ricerca deve diventare attrattiva per i giovani italiani che si devono iscrivere, per i nostri ricercatori che si trasferiscono definitivamente, invece di andare e tornare, e per quelli stranieri.

Qual è l'importanza della modifica che valorizza ulteriormente l'ambiente nella nostra Costituzione?

Un riconoscimento simile è molto importante, vuol dire rendere l’ambiente uno degli elementi portanti delle nostre scelte: di governo, politiche, del Paese e di chi lavora nei territori. Un principio statuito a questo livello rende chiaro quanto l’ambiente sia fondamentale nell'aspetto regolamentare, della divisione delle risorse, in tutte le misure. Ora questa svolta va concretizzata in maniera prospettica, programmatica, per non creare disoccupazione e problemi economici che rischierebbero di farla fallire.

L’università è stata travolta dalla pandemia. Ci auguriamo di essere verso l'uscita da questo tsunami, però il problema di conciliare la socialità della didattica con la sicurezza rimane

Credo che questa esperienza ci abbia segnato sotto vari punti di vista. Negativi, perché ha influito sulla socialità dei nostri giovani e ha determinato un certo malessere, un disagio che si sente, si percepisce, alcuni studi lo stanno quantificando. Positivi, perché ha permesso di capire che molte attività, inclusa quella educativa, possono usufruire delle tecnologie, che sono da utilizzare e non da demonizzare. Il mio intento è quello di far tornare in presenza il più possibile, perché il contatto e anche la casualità dell'incontro sono la base della socialità che si è purtroppo persa, i giovani ne hanno veramente tanto bisogno. Ma senza annullare la didattica a distanza.

Si è da poco tenuta la giornata dedicata a ragazze e Stem. C'è ancora bisogno di incentivare la partecipazione femminile alla ricerca?

Assolutamente sì. La necessità della maggiore valorizzazione riguarda tutti i laureati, come ho detto, ma le donne ancora di più, la parità salariale è un punto fondamentale del diritto che in Italia dobbiamo ancora raggiungere: basta vedere gli ultimi risultati di Almalaurea relativi alla disparità per le donne rispetto agli uomini laureati nelle stesse materie, Stem incluse, anche se in queste il divario è un po' inferiore. Va proprio sovvertito un aspetto culturale, di tradizione, che assegna le materie umanistiche alla donna e all'uomo la parte scientifica, siamo ancora al 12% appena di iscritte a Ingegneria e Informatica. Bisogna lavorare attraverso l'orientamento, l'incentivazione e abbiamo previsto un aumento, fino al 20%, delle borse di studio per le donne che vogliono sperimentare materie Stem. Non l'abbiamo fatto perché tutte le ragazze si laureino nelle materie scientifico-tecnologiche, ma perché ci vuole un equilibrio.

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