Un grande coach del ping-pong internazionale
Vincitore di 8 campionati italiani di singolo maschile di questa disciplina sportiva, Massimo Costantini ha partecipato 22 volte a mondiali ed europei e registra 452 presenze in maglia azzurra. Diventato allenatore, ha guidato nazionali italiane, arabe, americane indiane, ottenendo grandi successi. È stato di recente nominato High Performance Manager della Federazione internazionale di tennistavolo
È il più noto giocatore italiano di ping-pong di tutti i tempi. Massimo Costantini, classe 1958, vincitore di otto campionati italiani assoluti di singolo maschile, numero 39 nel 1981 nel ranking mondiale, 22 presenze in campionati mondiali ed europei. Ha rappresentato l'Italia nel mondo per 23 anni consecutivi e suo è il secondo record di presenze in maglia azzurra per tutti gli sport: 452, superato solo dal pallavolista Andrea Giani. Passato nel ruolo di allenatore, ha guidato la nazionale italiana dal 2002 al 2005, il Circolo Catania in Seria A1 nel 2006/2007, la squadra nazionale maschile degli Emirates dal 2007 al 2008. Ha poi allenato l'India dal 2009 al 2010, l'Icc Table Tennis Centre di San Francisco e ancora l'India, maschile e femminile, fino al settembre 2018, portando questa nazionale a vincere otto medaglie ai Gold Coast 2018 Commonwealth Games e due medaglie ai recenti Giochi asiatici di Jakarta (Ina). Si è formato a Senigallia, dov'è nato e dove hanno giocato altri campioni di questo sport, grazie alla scuola di cui è animatore Enzo Pettinelli, che di questa esperienza ha lasciato traccia in diversi libri, l'ultimo 'Mutamenti 1900-2013'.
Da Senigallia a coach della nazionale indiana, di strada ne ha fatta. Quando e come è iniziato il suo amore per la racchetta?
Ho cominciato da bambino. Ho disputato la prima gara di livello nazionale esattamente 50 anni fa, nel 1968. A quei tempi giocavo anche a calcio, ma nel corso degli anni l'amore per la racchetta e la pallina ha prevalso, assieme all'abilità, e spinto dalla voglia di migliorarmi non ho mai smesso di esplorare nuove soluzioni tecniche.
Qual era il suo colpo preferito?
Il block seguito da un contrattacco. Sono sempre stato un giocatore di attesa: mi piaceva ricevere la palla ed essere pronto al contrattacco.
Lei parla un ottimo inglese, a scuola andava bene? Quali materie preferiva?
L'inglese mi è sempre piaciuto. Un amico nel 1971 mi portò da New York il libretto del musical Jesus Christ Superstar e decisi di impararlo. Poi ho viaggiato molto. Andavo bene anche in matematica, i numeri mi hanno sempre attratto, mentre avevo un rifiuto per l'italiano e storia, che ora invece adoro.
Il suo palmares sportivo è impressionante. È orgoglioso di aver vestito 452 volte la maglia della nazionale?
Certo! Quelle maglie credo di averle tutte meritate, a suon di risultati in Italia e all'Estero. L'orgoglio maggiore è però quello di aver contribuito alla crescita del tennistavolo in Italia.
La vittoria più bella?
Credo che la partita più significativa sia quella disputata a Berna nel 1980, quando vinsi contro il campione del mondo. Quella vittoria ha impresso la svolta alla mia carriera. Come coach i momenti di soddisfazione sono stati tanti, ma portare la squadra indiana a vincere due medaglie ai Giochi asiatici ha rappresentato qualcosa che è andato oltre: un sogno, un'utopia che è diventata una realtà.
Come allena i suoi?
L'atleta che lavora con me ha la sicurezza di essere assistito e seguito in modo totale, dall'aspetto tecnico a quello tattico, dalla cura della preparazione fisica alla miglior percezione mentale delle proprie capacità: preparo un cocktail diverso per ognuno, cercando di dosare al meglio i contenuti e di rendere il tutto gradevole.
I cinesi sono i dominatori di questo sport. Cos'hanno in più?
È un fatto di numeri. Se noi abbiamo un buon allenatore loro ne hanno cento, se abbiamo una buona struttura, loro ne hanno cento; se noi abbiamo un buon giocatore loro ne hanno cento, infine, cosa che non guasta, se noi abbiamo un euro loro ne hanno cento.
Se non avesse intrapreso la carriera sportiva professionistica cosa avrebbe fatto?
Il mio background è umile, l'idea di lavorare per le Ferrovie dello stato mi attirava. Poi tra i miei interessi si sono insinuate la musica e la scrittura così, dopo il diploma di scuola superiore, ho frequentato a Bologna il Dams nella sezione musica. Forse mi sarei dedicato all'arte.
Nel tennis tavolo moderno si vedono scambi incredibili. Quanto conta la preparazione fisica?
Una buona condizione fisica permette una buona esecuzione di movimenti tecnici e una migliore capacità di fare scelte in brevissimo tempo. Oggi giorno lo scambio medio tra due atleti di alto livello è composto di tre colpi a un'intensità elevatissima: il ping-pong è uno sport misto, dove la componente aerobica e anaerobica si possono combinare anche nello stesso momento della prestazione.
Si utilizza qualche tecnologia per la preparazione?
Esistono i robot lancia-palline e c'è un costante studio sui materiali. Si cercano gomme sempre più elastiche, veloci e soprattutto che generino un'elevata qualità dello spin. Una cosa che molti non sanno è che la realizzazione di una racchetta non avviene in modo industriale, ma artigianale.
È interessato al mondo della scienza? Com'è il suo rapporto con la tecnologia?
Adoro la scienza. La scienza facilita la vita. Mi piace anche la tecnologia e sono al passo con i tempi. Alcuni anni fa avevo elaborato una teoria sulla produzione di un cellulare per persone con difetti di vista, ma scoprii che Google lavorava già allo sviluppo di un dispositivo analogo.
La sua prossima avventura nel mondo del ping-pong?
Ho sempre fatto il mio lavoro con grande passione. La vita ci presenta delle opportunità: io le ho colte e i risultati sono arrivati. Adesso ho appena accettato un incarico alla Federazione internazionale di tennistavolo (Ittf) come High Performance Manager: devo guidare e allenare i migliori atleti del mondo nelle categorie under 12, U15, U18 e U21. Inoltre, dovrò occuparmi della formazione dei coach internazionali: sarò l'allenatore degli allenatori.
Claudio Barchesi