Faccia a faccia: Donne

In difesa dell’ambiente, tra ricerca e militanza

Silvana Galassi
di Francesca Gorini

Figure femminili che in ogni parte del mondo hanno lottato attivamente per la salvaguardia del proprio territorio. Ricercatrici che con i loro studi hanno aperto nuove strade all’ecologia. Due mondi che si fondono nell’ecofemminismo, una teoria che prospetta un nuovo equilibrio ambientale. La spiega Silvana Galassi, ecologa e divulgatrice

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C’è un filo rosso che accomuna le attiviste sudamericane che lottano contro le multinazionali minerarie e le compagnie che costruiscono dighe in Venezuela, Guatemala, Colombia, Bolivia; le seguaci di Vandana Shiva che in tutta l’India non smettono di salvaguardare la millenaria tradizione agricola del Paese dallo sfruttamento delle imprese dell’agribusiness; le contadine del movimento Chipko che abbracciano gli alberi quale forma di protesta pacifica contro lo sfruttamento delle risorse forestali e - più vicino alle nostre latitudini - le attiviste di “Extinction Rebellion”, note per i loro gesti eclatanti per sensibilizzare le società sulla crisi ambientale. Ma gli esempi potrebbero continuare. Movimenti presenti in tutto il mondo, ideati da donne e portati avanti in gran parte da donne, che condividono la stessa pulsione per la difesa dell’ambiente e la salvaguardia delle risorse naturali. In una parola, ecofemministe. 

A spiegarci la teoria dell’ecofemminismo è Silvana Galassi, biologa di formazione e docente di ecologia, ecologia della nutrizione e di ecotossicologia presso l’Università degli studi di Milano, a lungo collaboratrice del Consiglio nazionale delle ricerche, prima presso l’Istituto per lo studio di chimica delle macromolecole (oggi riunito nel Cnr-Scitec), quindi dell’Istituto di biologia del mare di Venezia (oggi parte dell’Istituto di scienze marine) e dell’Istituto di ricerca sulle acque (Irsa) di Brugherio. È stata tra le prime in Italia ad avvicinarsi al campo di ricerca dell’ecotossicologia. Attualmente in pensione, ha fatto della diffusione del pensiero ecologico una sua missione: è autrice del volume “Dalla parte di Gaia. Teorie e pratiche di ecofemminismo” (Edizioni Ambiente), ed è impegnata in numerose presentazioni e incontri al pubblico: l’ultimo è stato organizzato lo scorso febbraio proprio nella sede del Cnr-Irsa, nell’ambito delle celebrazioni della Giornata Internazionale delle ragazze nella scienza. 


Prof.ssa Galassi, in che modo si legano ecologia e femminismo?
Sono due concetti intimamente connessi perché alla base di entrambi c’è la necessità di difendere qualcosa di “sfruttato”, tipicamente dalle società patriarcali: da un lato la natura, in quanto fonte di ricchezza materiale, dall’altro le donne, in primo luogo per il loro ruolo biologico di “procreatrici”. È da questa consapevolezza che nasce il pensiero ecofemminista, teorizzato già negli anni ’70, quando la seconda ondata del femminismo portò alla luce la discussione sul ruolo della donna nella società. Il termine si trova per la prima volta in un saggio del 1974 di Francoise D’Eaubonne, attivista dei diritti civili e fondatrice del movimento Ecologie et Féminisme, ed è stato sviluppato soprattutto a livello filosofico- antropologico. 

Quindi nasce come forma di ribellione? 
Nelle sue prime manifestazioni è più una forma di denuncia, derivante anche dalla presa di coscienza che le donne, in tempi e culture diverse, sono riuscite più e meglio degli uomini a stabilire un contatto profondo con la natura, basato sull’osservazione e sul rispetto. D’altro canto, per secoli nei contesti rurali le donne hanno avuto il compito di raccogliere e custodire ciò che la natura forniva spontaneamente: acqua, legna, frutti, radici e così via. In tempi più recenti questa teoria prende la forma dell’attivismo: tanti movimenti che, sorprendentemente, pur essendo contraddistinti da obiettivi diversi, mostrano le stesse caratteristiche organizzative e lo stesso fondamento di pensiero. E in cui le donne hanno un ruolo propulsivo cruciale. 

Una sorta di genetica ambientalista? 
No, non c’è nulla di genetico, ma qualcosa di profondamente radicato a livello culturale. Ancora oggi le bambine, rispetto ai maschi, sono incoraggiate fin da piccole a stabilire un contatto rispettoso con la natura, a sviluppare un senso di cura: cogliere i fiori non ne è, forse, l’esempio più evidente? Quella stessa cura viene declinata dalle ecofemministe su obiettivi precisi, che hanno a che fare con la difesa del territorio e delle sue risorse. Le donne che hanno difeso le foreste, come quelle indiane del movimento Chipko e africane del Green Belt Movement, erano ad esempio in una condizione svantaggiata, che le obbligava a utilizzare risorse marginali: la legna per accendere il fuoco, le erbe e le bacche selvatiche costituivano per loro beni indispensabili, ed è la loro condizione di esclusione dalla proprietà e dall’uso delle terre più fertili che le ha motivate a combattere per non perdere quel poco di cui disponevano.

Lei come si è avvicinata al movimento? 
Quasi per caso, mentre conducevo ricerche sulle prime scienziate ecologiste. L’ecologia mi ha appassionata già dai suoi albori negli anni ’70, e ho avuto la fortuna di vederla nascere, trovandomi a contatto presso il Cnr di Brugherio con veri e propri pionieri del settore come Roberto Marchetti, titolare della prima cattedra di ecologia all’Università di Milano, e Raffaella Balestrini, allora giovane studentessa e ora esperta del ruolo delle fasce riparie per la salvaguardia delle acque correnti e la prevenzione delle alluvioni. Questo interesse scientifico, unito al mio impegno sociale - sono volontaria per varie associazioni ambientaliste e umanitarie -   mi hanno avvicinato al pensiero ecofemminista.

Ci sono scienziate ecofemministe?
Molte delle studiose che sono state pioniere dell’odierna ecologia hanno dimostrato l’importanza di un approccio basato sull’osservazione della natura e sulla capacità di cogliere i segnali che questa ci trasmette. In pratica, una trasposizione all’ambito scientifico di quel “contatto empatico” con la natura tipico del mondo femminile. Negli anni ’60, la biologa statunitense Rachel Carson, oggi considerata la fondatrice dell’ambientalismo moderno, colpita da quanto stava accadendo ad alcune specie di uccelli nelle campagne degli Stati Uniti, si impegnò a trovare la causa: “Primavera silenziosa”, pubblicato nel 1962, fu il primo saggio in cui veniva denunciato il rischio per la fauna selvatica e per l’uomo di composti ad alto potenziale di bioaccumulo, come Ddt e altri insetticidi, che potevano produrre sulle specie conseguenze fatali come la perdita di fertilità e la morte. Qualche decennio dopo, Theodora Colborn, usando lo stesso approccio osservativo in una popolazione di uccelli ittiofagi della regione dei Grandi Laghi del Canada, arrivò a capire le conseguenze delle alterazioni ormonali sulla fauna derivanti dall’uso di pesticidi e altri contaminanti. Questo tipo di ricerche, inizialmente sottovalutate per non dire derise, hanno in realtà contribuito a fondare un metodo oggi ampiamente utilizzato: lo studio degli organismi sentinella e dei bioindicatori per valutare lo stato di salute di un ecosistema.

L’ecofemminismo può salvare il nostro Pianeta? 
Diciamo che può aiutarci a recuperare una visione in grado di conciliare ecologia ed economia, forse la sfida più affascinante e complessa che le nostre società si trovano oggi ad affrontare, coerentemente con gli obiettivi indicati dall’Agenda 2030. Ecologia ed economia sono termini accomunati dalla stessa radice, ma per decenni hanno viaggiato su binari distinti, anche se a ben vedere sono strettamente connessi: entrambi si occupano della nostra “casa” e della sua gestione. Per poter gestire una casa in maniera ottimale è necessario conoscerla; qui entrano in gioco da un lato il ruolo fondamentale della scienza e dell’innovazione, dall’altro la capacità dei decisori e governanti di seguire un approccio di “cathedral thinking”.

Cosa significa?  
Significa avere la capacità di programmare azioni sul lungo periodo, un aspetto sempre meno presente nell’amministrazione della cosa pubblica. Ho preso a prestito questo termine da Mariana Mazzuccato, economista e docente presso l’University College di Londra che, parlando della necessità di un cambio di paradigma a livello economico, ha portato ad esempio gli architetti medievali: erano in grado di progettare cattedrali maestose pur sapendo che, probabilmente, non avrebbero mai visto il risultato. E quelle cattedrali, frutto di una visione a lungo termine e di obiettivi condivisi, oggi, sono ancora in piedi.