Quattro opposte deposizioni, in una sorta di processo sull’omicidio di un samurai avvenuto in un bosco, disorientano e confondono lo spettatore del film “Rashomon” (1950) a tal punto da non essere in grado di farsi un’idea inequivocabile su chi possa essere stato l’assassino e quale il movente. L’anima del samurai defunto, sua moglie, un bandito e un boscaiolo: la trama disegnata da Akira Kurosawa, ispirata a racconti giapponesi, valse al cineasta un Leone d’oro come miglior film al Festival del cinema di Venezia e l’Oscar come miglior film straniero, e fu d’ispirazione per altre pellicole e remake, non solo in ambito cinematografico.
“L’effetto Rashomon è un concetto psicologico desunto dal capolavoro di Kurosawa, che si manifesta quando più persone forniscono rappresentazioni contrastanti di uno stesso episodio, esponendo i fatti in una forma soggettiva che viene distorta dalla percezione personale”, rileva Flavia Marino, psicoterapeuta dell’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica (Irib) del Cnr. “Nella pellicola, questo effetto viene brillantemente tratteggiato attraverso quattro testimonianze di un omicidio, che danno vita a quattro versioni narrate da differenti angolazioni. Dal punto di vista della psicologia, questi comportamenti evidenziano la parzialità della percezione umana e la natura sfuggente e fallace della verità assoluta. Ogni individuo filtra la realtà attraverso l’insieme dei propri pregiudizi, delle esperienze e delle emozioni, ma in casi come questi ciò può comportare narrazioni del medesimo evento che sono fortemente plasmate dalla soggettività”.