Faccia a faccia

Il libro, un viaggio reale e immaginario

Paolo Cognetti
di M. F.

'Le otto montagne' di Paolo Cognetti ha vinto Premio Strega, Strega Giovani e Strega Off, Médicis in Francia e l'English Pen Translates in Inghilterra. Ha venduto in Italia oltre 300 mila copie ed è stato tradotto in 30 Paesi. “Un anno faticoso, che mi ha dato ma anche tolto tantissimo”, confessa l'autore. “Il mio rimpianto? La matematica”

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Volendo intervistare uno scrittore in un numero dell'Almanacco della Scienza dedicato ai fatti più rilevanti del 2017, il dubbio non si pone: il libro dell'anno è stato senz'altro 'Le otto montagne' di Paolo Cognetti, vincitore non soltanto del Premio Strega ma anche dello Strega Giovani e Strega Off, un en plein coronato dall'assegnazione del Médicis in Francia e dell'English Pen Translates Award in Inghilterra. 'Le otto montagne' ha venduto in Italia oltre 300 mila copie ed è stato tradotto in 30 Paesi. Considerati gli impegni conseguenti al trionfo, è stata ancor più cortese la celerità con cui l'autore ha accettato di farsi intervistare: “Questo è stato un anno faticoso, che mi ha dato ma anche tolto tantissimo”, confessa. “Sono riuscito a scrivere e leggere poco e da gennaio ho intenzione di riprendere la mia vita di prima, per quanto possibile”. Cognetti vive per alcuni mesi in isolamento in montagna, un'esperienza che torna nel suo ultimo libro e a cui ha dedicato 'Il ragazzo selvatico', del 2013.

Un''evasione' se l'è intanto concessa con un viaggio in Nepal, a proposito di montagne, dal quale è appena tornato: la lettura può essere un buon 'premio di consolazione' per chi non può affrontare i viaggi di persona?

Non soltanto. Direi che i libri assolvono, da questo punto di vista, a una funzione duplice: consentire a chi non ha mai visto un luogo di conoscerlo indirettamente, ma anche rendere più consapevole chi ci è stato o ci andrà. Io per i miei viaggi mi preparo sempre documentandomi sulle fonti più importanti, il Nepal è stato per esempio preceduto dalla lettura de 'Il leopardo delle nevi', ho voluto seguire il percorso compiuto 40 anni fa da Peter Matthiessen. Stesso discorso vale per gli autori americani per me più rilevanti, come Jack London ed Henry David Thoreau (Cognetti è anche autore per Einaudi di due guide e un'antologia dedicate a New York, ndr). E poi, per quanto riguarda le montagne di casa nostra, non posso dimenticare Mario Rigoni Stern.

La montagna che lei racconta non è idilliaca, è anzi uno scenario incerto, prima di tutto per il difficile equilibrio tra ambiente e uomo. Come dice un protagonista del suo libro, la natura è “astratta”, mentre chi vive la montagna parla di “bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare”.

Credo purtroppo che perseguire quest'equilibrio sia utopistico. La gente che vive in montagna ha paradossalmente bisogno di ciò che uccide la montagna, cioè il turismo di massa. Io ci vivo per parecchio tempo ogni anno e ho molti amici che senza l'indotto dello sci non riuscirebbero a mantenersi.

Copertina È, insomma, amaramente realistico?  

In passato, quando ero più giovane, ero molto più radicale ed estremo nelle mie convinzioni. E lo sarei anche di carattere, ma quando vivi a contatto diretto con una realtà, come faccio io, impari l'importanza della diplomazia nell'affrontare i problemi. Il che non significa assolutamente disinteressarsi o rassegnarsi, al contrario: credo fortemente che l'impegno pubblico non sia un dovere esclusivo dei politici in senso stretto. Da poco ho accettato, per esempio, di far parte del Comitato etico-scientifico di Mountain Wilderness.

In effetti lei ricorda quello che un tempo chiamavamo 'intellettuale civile', è impegnato in attività come la Trattoria popolare e Scighera a Milano, l'associazione gli Urogalli e il festival 'Il richiamo della foresta' in Val D'Aosta: sta mettendo a frutto la popolarità dello Strega?

A dire il vero alcune iniziative da lei citate appartengono al mio passato, quelli milanesi sono posti che frequento ma non ci lavoro più. Comunque sì: io credo che uno scrittore, quando diviene noto al grande pubblico, debba convertire la sua popolarità a favore di cause significative e non nell'autopromozione. In passato parlavo con lo stesso entusiasmo davanti a 15 persone, ma oggi che me ne trovo 300 sento di dovermi assumere una responsabilità ancora maggiore, anche perché ciò che scrivo e dico viene letto e ripreso da altri intellettuali e critici. Le faccio un esempio: Repubblica mi chiese un diario della premiazione dello Strega da pubblicare con grande evidenza e io, a sorpresa, mandai un articolo su Cime Bianche, un vallone del Monte Rosa dove si vorrebbe costruire una funivia. Mi pareva assurdo che, avendo a disposizione la prima pagina di un grande quotidiano, raccontassi di me stesso, di come avevo vissuto quei momenti. In questo senso credo che la provocazione resti un importante strumento politico.

'Le otto montagne' è anche un romanzo sull'emancipazione dagli adulti. È un messaggio per i giovani, oggi accusati di disimpegno e sotto tutela famigliare fino ai 30 anni o più?   

In effetti devo dire che sono un po' sconsolato dall'indolenza di tanti ragazzi che ho occasione di frequentare e proprio per incontrarli e stimolarli accetto spesso di andare a parlare nelle scuole. A livello letterario e non solo mi piace la figura dell'adolescente ribelle, un po' spavaldo, mentre oggi prevale il guscio protettivo della famiglia d'origine, come se il mondo esterno fosse un pericolo e non un'opportunità. I protagonisti del mio libro sono due amici che da ragazzi stringono un rapporto saldo, mantenendolo da adulti pur tra alcune discontinuità: l'amicizia è un punto di forza rispetto alla chiusura di molte famiglie e parentele, aiuta a liberare i propri sentimenti.

Lei pubblica dal 2003 e aveva già ottenuto significativi riconoscimenti, anche come documentarista video (Cognetti è diplomato alla Civica scuola di cinema di Milano, ndr): cosa c'è in più e di diverso che ha decretato l'enorme consenso verso 'Le otto montagne'?

Credo che la risposta sia sempre nella semplicità, intesa come traguardo, ed è questa la chiave dei grandi scrittori americani che sono da sempre tra le mie letture preferite. Si tratta di togliere, insomma, più che di aggiungere: nella prima stesura dei miei libri sono sempre molto più lungo che in quella finale. Diciamo però che con gli anni questo lavoro di sottrazione mi viene più facile.

Cosa resta oggi, nel suo lavoro di scrittore, della sua formazione scientifica in matematica?

La matematica rimane una mia grande passione, ero portato sin da bambino per questa materia e l'ho intrapresa come corso di studi universitario, pur non terminandolo. Sarebbe stata senz'altro il mio mestiere se, a 18 anni, non fosse esploso l'amore per la letteratura. I grandi amori sono totalizzanti, non lasciano lo spazio per altro, ma quello della matematica è stato un abbandono doloroso, che ancora oggi mi provoca un dolce rimpianto.

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