Faccia a faccia

Pericoli tra linea, striscia, volto, paesaggio

Tullio Pericoli
di Marco Ferrazzoli

Nato nelle Marche, l'artista Tullio Pericoli vive e lavora a Milano, dove si è trasferito su suggerimento di Cesare Zavattini, uno dei suoi tanti sostenitori con Giancarlo Fusco, Eco, Tabucchi, Oreste del Buono, che lo ha definito “il pittore dei giornali”. Con le sue opere ha collaborato a Repubblica, The New Yorker e The New York Review of the Books, Harper's Magazine, Pais, Frankfurter Allgemeine, Corriere della Sera, Linus. “La mia cifra è giocare, fingere di essere qualcuno, dire la verità senza retorica”. “Il digitale facilita, ma allontana il 'corpo' dell'artista”. “Rita Levi Montalcini se la prese per il suo ritratto…”

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Nato nelle Marche, l'artista Tullio Pericoli realizza il primo ritratto, quello di suo zio, a 12 anni. Da ragazzo si trasferisce a Milano su suggerimento di Cesare Zavattini, uno dei suoi tanti ammiratori e sostenitori con Giancarlo Fusco, Umberto Eco, Antonio Tabucchi, che ha definito l'arte di Pericoli un “Infinito minimo”, dove si trovano anche la Svizzera, l'Oriente, haiku e zen. “Zavattini fu quasi un padre per me, ricordo che quando diedi l'indirizzo al taxista capì subito da chi mi stesse portando. Passammo una mattina assieme, guardava i disegni uno alla volta, con gli occhiali poggiati a metà del naso, e io cercavo di capire se gli piacessero. Ogni volta che approvava per me era come se parlasse Dio. Alla fine disse: 'Sei bravo, lascia perdere l'università ma vai a Milano, non a Roma'”. Le prime mostre, però, Pericoli le tenne ad Ascoli nel 1958 e 1960. Oreste del Buono lo ha definito “il pittore dei giornali. Tra le testate dove sono comparse le sue opere, Repubblica – di recente sul Venerdì è uscito un suo ritratto di Samuel Beckett – The New Yorker e The New York Review of the Books, Harper's Magazine, El Pais, Frankfurter Allgemeine, Corriere della Sera, Linus. Tra i molti libri pubblicati ricordiamo 'Pensieri della mano' e 'Paesaggi', editi da Adelphi. E Silvia Ballestra ha raccontato la sua biografia in un volume dal titolo "Le colline di fronte". Sostiene che la linea sia “una delle tre grandi scoperte dell'uomo, con il fuoco e la ruota”.

Paesaggi, ritratti, una striscia satirica; dipinti, matita, acquarello… I cambiamenti di genere e tecnica per un artista dalla produzione lunga e cospicua come la sua sono un sistema per sfuggire alla ripetizione? 

Difficile dirlo, non decidiamo in anticipo la nostra vita, cercare di capirne il senso è possibile solo a posteriori. Ma da bambini ce la immaginiamo dicendo: “Facciamo che io ero…”. Ecco, direi che la mia cifra artistica è questa: giocare, fingere di. Credo che in questo modo sia più facile dire quello che si pensa in modo più schietto. E si eviti la retorica.   

A proposito di schiettezza, lei ha espresso sull'arte contemporanea giudizi severi: dice che si “guarda da lontano”, che in qualche caso è “inutile vederla”, che è molto mentale e poco manuale. Stiamo perdendo la dimensione 'artigianale' dell'artista?  

Copertina "Il Venerdì" Direi che stiamo perdendo soprattutto il rapporto con il corpo: nel mio mestiere sento bisogno delle spalle, del braccio, di tutto il mio fisico, non solo della mano che regge la matita e dei polpastrelli. La nostra memoria non risiede solo nel cervello, è in tutto il nostro corpo. Nell'arte di oggi spesso non trovo questa fisicità dell'artista.

Non a caso lei definisce la matita “il mio sesto dito” e l'ha ritratta in forma di mozziconi, pennini, coriandoli. Come vive la digitalizzazione che oggi consente di disegnare senza usarla?

Il digitale facilita moltissimo, rende più rapida l'esecuzione ma, di nuovo, temo allontani il 'corpo' dell'artista. Detto ciò, il mio è il mestiere nel quale è più necessario sperimentare: se penso che al liceo eseguivo opere incidendo il linoleum, mi pare di essere nato nella preistoria. Eppure a volte anche tecniche antiche ritornano vive, ora per esempio sto realizzando una sorta di affreschi su intonaco.

Ha eseguito oltre 600 ritratti, in gran parte di scrittori - alcuni come Beckett e Oscar Wilde in numerose versioni diverse - ma anche di scienziati. E sostiene che non capiamo il nome di chi ci viene presentato perché siamo impegnati a guardarlo in viso. Come affronta questa passione per il volto? 

Quando eseguivo quei ritratti non c'era Wikipedia e per ispirarmi ricorrevo direttamente alla fonte, leggendo almeno una parte, dei testi di quegli scrittori; credo che questo aiuti a coglierne i dettagli altrettanto che utilizzare una foto. In altri casi, per esempio Eco, è poi intervenuta la conoscenza diretta: l'ho disegnato al tavolo, la penna in mano, gli oggetti intorno, l'abito… Beckett secondo me è la più bella faccia del '900 e vorrei dedicargli una mostra monografica. Rita Levi Montalcini a dire il vero se la prese per il mio ritratto, nel quale avevo trasformato l'elica del Dna in un nastro che le cingeva la capigliatura così riconoscibile; minacciò addirittura un'azione legale, con una reazione che trovai piuttosto esagerata. Einstein invece l'ho disegnato in bicicletta, in un gesto banale, ho cercato così di esprimere come unisse normalità e genio, come fosse un uomo che si muoveva con disinvoltura tra la terra e il cielo.

Pensando ai titoli di alcune sue opere e mostre di paesaggi - 'Sulla Terra', 'Nature' - potremmo definire la sua sensibilità verso questo tema una sorta di ecologia, di ambientalismo?

No, assolutamente no. Nel mio interesse e amore verso il paesaggio non c'è nessuno stimolo moralistico, sociale. Il paesaggio è la prima scena teatrale che vediamo venendo al mondo, dopo gli occhi di nostra madre. È quindi anche la prima immagine a disposizione del pittore: c'è chi osserva che questo soggetto entra nella storia dell'arte solo nel '500, ma a mio avviso esiste da sempre anche se, pensiamo all'Impressionismo, si afferma tardi come protagonista. Per me vale quello che diceva Van Gogh: “Vorrei dipingere come i contadini arano la terra”. In qualche modo, vorrei abitare dentro i miei paesaggi, poiché quello che riusciamo a rappresentarne è solo la superficie. Qui a Milano, nella zona di San Siro, c'è ad esempio una collinetta perfetta, con il prato, che in realtà nasconde una parte di rovine della città.

Un po' il concetto che lo psichiatra Vittorio Lingiardi sottolinea nel suo recente 'Mindscapes'. Il titolo di un'altra sua opera, sempre a proposito del paesaggio tra realtà e immaginazione, è il leopardiano 'Sedendo e mirando'.

Il mio amore per la collina viene sicuramente dalle mie origini marchigiane. Ne possiamo avere una visione dall'alto o dal basso: nella prima cogliamo una successione di forme e di linee, mentre 'scendendo nei fossi', come dicevamo da ragazzi, sembra di avere davanti una lavagna su cui è scritta la storia di quel luogo. Tornando dopo molti anni al mio paese, Colli del Tronto, scoprii che il campanile che un tempo vedevo appena spuntare dietro una dorsale appariva fino alla metà: mi hanno spiegato che è l'effetto dell'aratura meccanica che, consentendo di invertire la direzione dei solchi, ha accentuato il processo di erosione, di dilavatura. Rientro spesso nella mia regione natia, dove ho una casa.

Quel territorio ha subito ora un trauma terribile, ci è tornato dopo il terremoto?

Sì, l'impressione nel rivedere Arquata e Pescara del Tronto è stata molto forte: la fragilità delle case e dei suoli, le vite perdute… Tra l'altro alcuni posti sembrano rimasti fermi a subito dopo la scossa, con i muri in piedi a testimoniare i crolli, come fantasmi. Dopo aver realizzato una serie di paesaggi delle Langhe, mi sono così dedicato ad alcuni paesaggi marchigiani che ho cercato di rappresentare proprio in questo modo, come se mi trovassi tra le mura dei paesi distrutti.

Come ha vissuto invece la collaborazione newyorchese, in contatto con una dimensione metropolitana così diversa?

Risale all'epoca della mia collaborazione con i giornali, che ho interrotto lasciando solo a Repubblica l'utilizzo dell'archivio così come con la morte di Emanuele Pirella si è interrotta la striscia 'Tutti da Fulvia sabato sera'. Il lavoro per i giornali permette un rapporto con il pubblico molto diretto, senza mediazioni.

Forte di una carriera così lunga e di tanti riconoscimenti, definirebbe il suo più talento o genio?

Alberto Savinio diceva che il talento, che peraltro è necessario in tutti i mestieri, può nuocere se è razionalizzazione eccessiva. La parola genio non la amo, se non nella definizione che ne diede Goethe: pazienza”.

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