Narrativa

Mencarelli si è fermato a Sant’Anna

Copertina del libro Fame d'aria
di Manuela Faella

Un piccolo paese molisano offre solidarietà a Pietro, personaggio-alter ego dello scrittore, padre di un figlio autistico. Dopo la trilogia del dolore del figlio, l’autore-protagonista soffre come padre

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“Fame d’aria” (Mondadori) di Daniele Mencarelli arriva dopo “La casa degli sguardi”, “Tutto chiede salvezza” (divenuto una fiction di grande successo) e “Sempre Tornare”, potremmo dire dopo la trilogia del dolore del figlio. Ma adesso l’autore-protagonista soffre da padre. Nella foto di copertina il peso di un corpo enorme atterra sulle spalle di chi osserva. Il padre porta il figlio come Gesù la croce, cadendo e soccombendo sotto il suo peso, ma anche rialzandosi e abbracciandolo. Già dalle prime pagine si ritrova il linguaggio nudo e crudo della verità e il tipico inanellarsi di parole senza fronzoli, ma mai prive di poesia, nonostante la durezza. Mencarelli ribadisce la propria potenza di espressione e si riconferma l’intenso poeta e romanziere di sempre: “Il figlio malato te lo manda il destino, e io non so dove andarlo a cercare per mettergli le mani addosso”.

La storia è quella di Pietro e di suo figlio Jacopo, affetto da una forma di autismo a “basso funzionamento, bassissimo”: grave disabilità intellettiva e assenza di adeguate proprietà di linguaggio. Una storia tutto sommato breve e semplice, con azioni ridotte al minimo: padre e figlio viaggiano verso il Sud per un fine settimana da trascorrere a Marina di Ginosa, per festeggiare l’anniversario di matrimonio di Pietro e sua moglie. La macchina in Molise si rompe. Li aiuta Oliviero, un meccanico che con il suo carro attrezzi li porta nel paese più vicino, Sant’Anna del Sannio. Entrano nel bar, ristorante, pensione di Agata e Gaia, e lì si fermano. Mentre un viaggio finisce, un altro comincia.

Da qui in poi il viaggio che Mencarelli racconta è quello interiore di Pietro e del suo rapporto con il figlio, un figlio che cammina dondolando, che sa dire solo “mmmhhh”, che si “piscia e caca addosso”. Non è un rapporto padre-figlio “normale”, non è un neonato che cresce ma un neonato che rimane tale, che non diventa grande ma solo grosso. Non ci sono le gioie dei successi a scuola, le arrabbiature dei rientri notturni a casa, la felicità del primo amore o la delusione perché non è diventato chi suo padre avrebbe voluto. È un rapporto a senso unico di cura continua, senza restituzione di emozioni, faticoso ed estenuante fino allo stremo. La madre accetta e continua ad amare nel dolore, il padre non accetta e continua ad amare con disillusione e disamore, nella rabbia contro tutto e tutti, nei rimpianti dei suoi tanti sogni spezzati, trattando male il figlio, senza buonismo e perbenismo, senza ipocrisia. Lo chiama “Scrondo”, lo sfigato, il mostro. Pietro non sa più come fare ad amare suo figlio. Lo Scondro, invece, “ama da bestia”.

Inevitabile, in un simile contesto, la denuncia della condizione critica in cui versa la sanità pubblica, la rabbia verso le istituzioni, che si aggiunge al senso di ingiustizia e si confonde con il senso di colpa di un padre che non ce la fa anche per difficoltà economiche: “Oggi a un genitore dicono tutto, anche quello che non vorrebbe sentirsi dire. Ti dicono che tuo figlio ha un potenziale, che con le terapie giuste, nei posti giusti, quel potenziale si può tirare fuori. E se uno non ha le possibilità? Se sei un morto di fame? Magari se Jacopo fosse nato da un padre più ricco, più bravo a fare soldi, avrebbe frequentato centri migliori, i migliori terapisti. Chissà, forse starebbe un po’ meglio”.

Nell’idea di Mencarelli la famiglia media, che lavora, quella piccolo borghese, non può riuscire da sola a sostenere l’enorme impegno fisico e psicologico che un figlio con una disabilità così grave richiede. “Di fronte a certi destini, difficili da accettare, faticosi, un padre e una madre non possono bastare”, dice Mencarelli. L’unica possibilità di salvezza può essere recuperare la dimensione sociale, comunitaria della malattia.

Il racconto, dunque, sembra aprirsi alla speranza, che per l’autore non è la fede, la quale in questi casi facilmente vacilla. “Un uomo che soffre per la salute di un figlio, oggi come ieri, come domani, non potrà non sentire un moto di insofferenza verso il cielo. Non potrà non battagliare con l’assenza di Dio”, ha dichiarato l’autore in un’intervista. La speranza è invece è ammettere i propri limiti, farsi aiutare, fidarsi e affidarsi. La si potrebbe definire una speranza “condizionata”: la condizione è che dall’altra parte ci sia qualcuno che non solo ti accolga, ma che lo faccia con amore.

Dall’altra parte, in questo caso, c’è Sant’Anna del Sannio, paesino di 100 abitanti, come tanti in Molise e in Italia, fuori da spazio e tempo, dove se arriva un forestiero dopo cinque minuti lo sanno tutti.  All’inizio i residenti sembrano sospettosi e ostili, figuriamoci con uno come Jacopo, “quello spettacolo di natura che dondola sulla sedia, occhi nel vuoto, con le guance lucide di unto e la maglietta con le macchie di sugo”. Ma poi, passata la paura, si rivelano pronti ad accogliere e ad aiutare, mostrano un’umanità autentica perché protetta dall’isolamento e dalla semplicità, si concedono e sorridono, preparano da mangiare, accolgono, ascoltano, incoraggiano. Bisognerebbe riscoprire questi luoghi, senza contaminarli e snaturarli.

“Secondo me, questo devi riuscire a fare. Prendere il buono che c’è dentro ogni cosa”: sono banali le parole di Gaia, come facilmente sono tutte quelle pronunciate in questi contesti, ma sono una luce per Pietro, a lui fanno bene lo stesso. Magari gli “angeli” come Gaia stanno anche in silenzio, ma tu sai che sono lì e non ti senti più così solo.

Titolo: Fame d’Aria

Categoria: Narrativa

Autore: Daniele Mencarelli

Editore: Mondadori

Pagine: 180

Prezzo: 19,00