L’importanza di un gesto
Nella pellicola della regista statunitense Randa Jo Haines, “Figli di un dio minore”, uscita sul grande schermo nel 1987, si racconta il rapporto tra una ragazza sorda e un insegnante udente. La pellicola è lo spunto per affrontare il tema della sordità, sfatando qualche luogo comune, assieme a Olga Capirci dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Cnr, la prima struttura pubblica italiana a studiare la lingua dei segni
Protagonista di “Figli di un dio minore”, film diretto nel 1987 da Randa Jo Haines, è Sarah Norman, una ragazza sorda che lavora in un Istituto per sordomuti del New England, dove vive da quando è bambina. Sarah si legherà sentimentalmente a un giovane insegnante udente arrivato da poco nella struttura, James Leeds. La coppia è interpretata da William Hurt e Marlee Matlin, attrice realmente sorda, che per l’interpretazione fu premiata con l’Oscar come migliore attrice protagonista: la più giovane vincitrice, ad appena 21 anni, nella storia del prestigioso riconoscimento.
“Nel film la protagonista non parla, pur essendo in grado di farlo, perché si vergogna della propria limitazione vocale. Questo tipo di comportamento ha in qualche modo perpetuato lo stereotipo del sordomuto, ma in realtà non c’è una relazione diretta tra sordità e mutismo. In passato, l’individuo sordo, in mancanza di un input acustico e senza l’ausilio di protesi e dei più moderni impianti cocleari, sviluppava una diversa modalità di articolazione della parola rispetto a una persona udente”, spiega Olga Capirci, coordinatrice del laboratorio LaCam (Language and Communication Across Modalities) e dirigente di ricerca dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione (Istc) del Cnr. “Il merito di questa pellicola è stato soprattutto far conoscere al pubblico di massa la lingua dei segni americana”.
Un’altra falsa credenza è infatti che esista un’unica lingua dei segni, universale. “In realtà nel mondo se ne registrano circa 150 diverse. Ognuna si sviluppa autonomamente, anche rispetto alla lingua parlata nel territorio, ma può risentire di un certo condizionamento culturale, caratteristico della specifica area geografica. Seppur non se ne sappia ancora molto, possiamo dire che le lingue dei segni non si muovono nella stessa direzione di quelle vocali e che risentono degli scambi che i componenti delle diverse comunità hanno avuto tra di loro”, precisa la ricercatrice.
L’idea che la sordità possa rappresentare un limite all’apprendimento linguistico è, ancora, fallace. “Tale capacità non ha a che fare con la modalità mediante cui si esplica ed è piena anche in un bambino che nasce sordo, che è però molto importante venga esposto quanto prima a una lingua dei segni. In tal modo la acquisirà in modo naturale, negli stessi tempi e modi attraverso i quali un bambino udente impara una lingua vocale”, evidenzia la studiosa del Cnr-Istc. “L’apprendimento darà anzi un vantaggio cognitivo, come nel caso del bilinguismo vocale. Qualunque persona sorda che conosca la lingua dei segni utilizza anche la lingua scritta e parlata del Paese nel quale vive: per questo motivo i sordi amano definirsi bilingui bimodali, trattandosi di una capacità che si esplica attraverso due modalità differenti”.
Il riconoscimento linguistico della lingua dei segni è arrivato soltanto negli anni Sessanta del ventesimo secolo e da allora in poi, anche in Italia, si è cominciato a fare ricerca più approfondita in merito, non soltanto dal punto di vista medico. “Fino a quell’epoca le lingue dei segni venivano identificate come linguaggi mimico-gestuali e ci si basava sulle conoscenze acquisite attraverso le lingue vocali. Si cercava di conformarne forzatamente la struttura all’organizzazione grammaticale di quelle parlate, costituita da nomi, verbi, aggettivi e altro. Oggi le lingue dei segni, alla stregua delle altre, vengono definite multimodali e multilineari, perché utilizzano diversi canali espressivi: oltre che delle mani, prevedono l’utilizzo di testa, spalle, busto e movimenti di labbra e arcate sopraccigliari”, conclude Capirci. “In alcuni casi le labializzazioni replicano la parte iniziale della parola della lingua vocale, per una sorta di fenomeno di contatto. Il nostro Istituto è stato la prima struttura pubblica a studiare la Lingua dei segni italiana (Lis), negli anni in cui è uscito ‘Figli di un dio minore’, anche attraverso il supporto di ricercatori sordi. Alcuni anni fa abbiamo promosso un corso di Lis per bambini udenti in una scuola elementare, che è piaciuto molto e ha dato ottimi risultati in termini di potenziamento della memoria e dell’attenzione visiva. Sarebbe opportuno che la scuola italiana incentivasse l’insegnamento per tutti della Lis, come anche del sistema Braille utilizzato dalle persone cieche o ipovedenti, per favorire meccanismi di inclusione che valorizzino le differenze. Una lingua non è soltanto un mezzo attraverso il quale comunicare, ma anche un fattore fondamentale per la realizzazione di competenze sociali”.