Faccia a faccia: In che senso?

Musica e immagini per raccontare l’Italia

Egidio Eronico
di R. B.

Il regista Egidio Eronico nel suo ultimo lavoro “Amate sponde”, in sala dal 14 marzo, propone una narrazione del nostro Paese che ne evidenzia la bellezza e la ricchezza, le tante contraddizioni e le diseguaglianze. Ma le sue opere affrontano anche altri temi e raccontano personaggi diversi, come lo scienziato Ettore Majorana

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Nato a Roma, Egidio Eronico si laurea in architettura nel 1983. Inizia la carriera nel cinema alla fine degli anni ‘70 producendo e dirigendo film indipendenti in super8. L’esordio nel lungometraggio è del 1986, anno in cui dirige “Viaggio in città” con Sandro Cecca, con il quale lavora anche alla pellicola drammatica “Stesso sangue” (1988) e a “Rito di passaggio” (1990). Dopo “Annata di pregio” (1993), “Fiabe metropolitane” (1997) e “Il guardiano” (1999), nel 2002 dirige Charlton Heston in “My father-Rua Alguem, 5555”, ultima prova del grande attore hollywoodiano. Realizza numerosi documentari, tra i quali “A proposito di Roma” (1987), il seriale radiofonico in 12 puntate “L'amico magico” su Nino Rota, e due ritratti d’autore come “Michel Petrucciani Body and Soul Tribute” (2011) e “Nessuno mi troverà” (2015) sulla scomparsa di Ettore Majorana. In “Amate sponde” (2022), utilizzando solo immagini e musica, ritrae un’Italia di sorprendente bellezza, umana e naturale, anche se segnata da forti contraddizioni e da una non semplice trasformazione. Il film sarà visibile al cinema dal 14 marzo.

“Amate sponde” propone luoghi e realtà molto differenti. Da dove nasce questa idea, apparentemente semplice ma molto impegnativa?

Raccontare per immagini cinematografiche l’Italia nella sua attuale fisionomia è stato un desiderio e un’esigenza. Ho coltivato a lungo l’idea di questo film, documentandomi e raccogliendo materiali a livello interdisciplinare per anni. L’origine segreta di “Amate Sponde” va probabilmente rintracciata in alcune parole di Federico Fellini, da me condivise nella breve premessa alla pubblicazione della sceneggiatura de “La voce della Luna”, nel 1990: “Ogni volta mi rendo conto che il cinema italiano, me compreso ovviamente, dell’Italia non ha raccontato niente. Sappiamo tante cose sull’America attraverso i suoi film. Dell’Italia, niente”. Con questa consapevolezza mi sono messo alla prova, cercando di comprendere prima e di restituire poi, attraverso il linguaggio cinematografico, un’Italia dal paesaggio complessivo unico, ma che spesso si stenta a riconoscere nelle sue varie dinamiche. Un’Italia, in continua trasformazione, nonostante tutto, divisa dalle contraddizioni tra nuovi fermenti e invincibili arretratezze, tra spinte innovative e conservatorismi. Il film, in questo senso, si può leggere come una sorta di atlante domestico o, più semplicemente, come un alfabeto per immagini.

Perché un film senza voci, fatto solamente di musica e immagini, peraltro di qualità eccezionale? Che tecniche di ripresa e post-produzione avete utilizzato?

La scelta di realizzare un impianto narrativo privo di parole è principalmente dovuta alla mia passione per il cinema delle origini. Personalmente ritengo che il cinema negli anni Venti fosse già al massimo della sua potenza espressiva e tutt’altro che muto, bensì solo sfornito di “parola udibile”; pertanto ho cercato di orchestrare progressivamente un racconto fisico ed emotivo puntando esclusivamente sull’interazione immagine/suono, mediata dal montaggio. Un racconto che, riprendendo Ejzenstejn, vuole spingere lo spettatore a vedere la musica e ascoltare le immagini, perché importante non è tanto il capire, quanto il sentire ciò che siamo, dove ci troviamo e cosa non vogliamo perdere. La qualità delle immagini si deve a una camera Sony Venice Full Frame associata a ottiche anamorfiche anni Settanta. Una scelta vincente a mio giudizio di Sara Purgatorio, la direttrice della fotografia, che ha fatto un gran lavoro. Va detto che le riprese si sono svolte dal settembre 2019 fino al maggio 2022. Quindi, quattro anni di lavoro in 78 minuti.

Le scene mostrano zone degradate e paesaggi splendidi, cosa ha voluto significare mostrando questa duplice e contraddittoria realtà, dal punto di vista umano e ambientale?

Ho solo voluto mostrare lo stato reale in cui versano alcune aree, situazioni che evidenziano come la principale vulnerabilità oggi in Italia sia l’aumento delle disuguaglianze sociali. I dati più recenti dell’Istat ci dicono che il numero di individui in povertà assoluta è quasi triplicato dal 2005 al 2021, passando da 1,9 a 5,6 milioni (il 9,4% del totale) mentre le famiglie fragili sono invece più che raddoppiate, divenendo da 800 mila a 1,96 milioni (pari al 7,5%). Senza la dovuta attenzione al problema delle disuguaglianze, anche le battaglie quotidiane del migliore ambientalismo, a partire dalla lotta ai cambiamenti climatici, sono destinate all’insuccesso. Giustizia sociale e ambientale camminano l’una a fianco dell’altra. Se non si riducono le disuguaglianze s’indebolisce inoltre la prospettiva dello sviluppo, con conseguenze facilmente immaginabili. C’è poi un aspetto del degrado ambientale italiano particolarmente grave e preoccupante, quello riferito al consumo di suolo. I dati più aggiornati (2021) certificano che l’Italia viaggia a un ritmo non sostenibile: in media 19 ettari al giorno, ovvero 2,2 metri quadrati al secondo. Aree naturali e agricole scompaiono definitivamente per far posto a edificazioni, infrastrutture, crescenti processi di urbanizzazione senza una ragione demografica: la popolazione residente è calata, ma il consumo di suolo nel 2021 ha toccato la cifra record pro capite di 363 metri quadrati per abitante.

Egidio Eronico

Il regista Egidio Eronico durante le riprese di "Amate sponde"

In “Amate sponde” si vedono anche missioni spaziali e attività scientifiche di eccellenza; perché ha avvicinato situazioni così specifiche?

In generale, senza nulla togliere alla cultura umanistica, trovo che la cultura scientifica sia al centro della nostra vita. Penso per esempio alla fisica teorica: io sono attratto da come la meccanica quantistica – come spiega Carlo Rovelli – operi per ridefinire costantemente le condizioni e i limiti della conoscenza, interrogandosi su ciò che intendiamo e viviamo come realtà. Penso ai risultati raggiunti dalle neuroscienze, che ci consentono di capire le basi dei nostri comportamenti con la possibilità di modificarli, spingendoci a ripensare i concetti di mente, identità, libertà. Non credo, insomma, alla contrapposizione tra le “due culture”, bensì alla loro integrazione, secondo il modello proposto dal fisico austriaco Erwin Schrodinger che intendeva “la scienza come costituente dell’umanesimo”. La scienza ha infatti un valore innanzitutto culturale, al pari della storia, della filosofia e della letteratura. In “Amate Sponde” ho voluto dedicare alcune sequenze al primato in alcuni campi della ricerca scientifica e tecnologica italiana, nonostante l’Italia investa in ricerca e sviluppo meno della media europea (1,4% del Pil contro il 2,1 dell’UE e il 2,5 dell’Ocse). In compenso superiamo la media UE per quanto riguarda le pubblicazioni scientifiche, che figurano tra il 10% delle più citate a livello mondiale (oltre l’11% contro il 9,9% del resto d’Europa). È più che evidente, dunque, come la qualità dei ricercatori italiani sia altissima. Gli italiani per lo più neppure sanno che oltre il 40% della Stazione spaziale internazionale è progettato e realizzato nel nostro Paese, né che l’Italia, alla pari col Giappone, è all’avanguardia nel campo della robotica o che siamo al top in Europa per la ricerca nelle malattie genetiche rare. Sempre in tema di contraddizioni, è lecito chiedersi come sia possibile che il Paese che esprime simili livelli di eccellenza non sia ancora riuscito a risolvere il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti.

Che ruolo hanno avuto le partnership scientifiche, tra cui quella Cnr?

Sono grato al Cnr che - come già aveva fatto per la mia opera su Majorana - mi ha supportato nella realizzazione di questo film, guidandomi attraverso le frontiere più avanzate della nostra ricerca scientifica. Allo stesso modo sono debitore nei confronti dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova, che mi ha aperto le porte dei suoi laboratori, e di Legambiente, che mi ha fornito i dati più significativi riguardanti le criticità del nostro ecosistema naturale e urbano.

Nel 2015, ha diretto per l’appunto “Nessuno mi troverà”, che ripercorre la vita del fisico Ettore Majorana, scomparso in circostanze misteriose il 25 marzo 1938. Perché ha affrontato questa vicenda ancora irrisolta? Sempre per la sua passione per le tematiche scientifiche?

Ho caparbiamente voluto realizzare un film su questo scienziato atipico più per reazione alla vulgata che da sempre lo accompagna che per celebrarne il mito. Se non altro perché di questo non c’era particolarmente bisogno: per chi si occupa anche solo marginalmente di progresso scientifico e di storia delle idee, la stella di Ettore Majorana brilla alta e sicura da tempo nei cieli della conoscenza. Per me, si trattava soprattutto di riscattare la figura del fisico siciliano da un’aneddotica stucchevole, un chiacchiericcio per lo più privo di fondamento, velleitario e a volte dai tratti demenziali che si ritrova in gran parte della pubblicistica sul “personaggio”. Volevo farla finita col genio incompreso e problematico per cercare, al contrario, di illuminare la persona nella sua non sempre facile verità. Majorana appartiene a quella generazione di uomini, nata agli inizi del XX secolo, che si è trovata ad affrontare in prima persona le grandi rivoluzioni scientifiche, tecnologiche e sociali che hanno dato luogo a quella che il filosofo e matematico austriaco Edmund Husserl (il padre della fenomenologia) ha definito la crisi radicale di vita dell’umanità europea.

Locandina di Amate sponde

Locandina del film "Amate sponde"

Il film è un curioso pastiche in stile docufiction, girato in parte come un cartoon. Ora invece un documentario classico. La appassionano i generi “altri”?

“Nessuno mi troverà - Majorana memorandum” contiene 11 minuti di animazione in stop-motion e 3D, in bianco e nero e con un taglio vagamente noir che, tra immaginazione e documentazione, tentavano di ricostruire le presumibili ultime ore prima della sparizione. Ho scelto l’animazione perché personalmente non amo l’impiego di attori nel cinema a carattere documentaristico, che trovo insopportabilmente fasullo. Il disegno animato, invece, crea una distanza che rende la narrazione in qualche modo più astratta, ma al tempo stesso permette paradossalmente allo spettatore di entrare in profondità nell’esistenza della persona di cui il film si occupa. Non definirei “Amate Sponde” un documentario classico nel senso che stento a riconoscerlo come tale. Mi sono misurato con la realtà, è vero, ma sempre interpretandola e a volte trasfigurandola. Si può parlare, con una definizione oggi in voga, di cinema del reale (che non mi convince) o più semplicemente, dato il suo carattere esplicito, di non-verbal film (magari alla Eichenbaum). Per me si tratta di cinema allo stato puro e niente più. Comunque, sì, mi piacciono i generi.

Lei è laureato in architettura, questa formazione le serve nel cinema e in particolare alla regia?

Sì, certamente. Ho iniziato a fare cinema verso la fine degli anni Settanta e sono stato un architetto militante fino alla metà degli anni Novanta. Sono legato alla cultura del progetto e non da oggi mi piace pensare che i film che riesco a mettere in piedi siano le mie sole architetture possibili.

Tra le opere che ha diretto c’è “My father”, ultimo film del premio Oscar Charlton Heston; come è stato collaborare con questo grande attore, che è riuscito a lavorare alla pellicola sebbene fosse già affetto dall’Alzheimer?

Ho lavorato una ventina di anni fa con Heston, Thomas Kretschmann e Murray Abraham nel film “My father - Rua Alguem 5555”, da un romanzo di Peter Schneider ispirato all’unico incontro avvenuto nel 1977 in Brasile tra il criminale nazista Josef Mengele e suo figlio. Heston aveva 78 anni e cominciava ad avere qualche difficoltà. Io l’ho strapazzato un po’, facendolo lavorare in una favela di Manaus, con 40° di temperatura e 93% di umidità nell’aria, e nella foresta amazzonica. Ma lui non ha battuto ciglio e senza mai lamentarsi si è lasciato dirigere da un regista indipendente italiano in una storia non così facile. Disciplinato, come tutti i leoni della Old Hollywood, e spiritoso. Alle mie preoccupazioni per la caratura mostruosa del suo personaggio reagiva con un sorriso. “Tranquillo” mi diceva “non è la prima volta che interpreto la parte del cattivo”.

Quali progetti ha per il futuro, a cosa sta lavorando?

Attualmente sto lavorando a un western e a una miniserie di spionaggio ambientata in Italia alla fine degli anni Trenta. A proposito della passione per i generi…

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