Focus: Immateriale

Il denaro (da solo) non fa la felicità

Denaro
di Rita Bugliosi

Secondo recenti studi non è vero che godere di una situazione economica agiata garantisca il benessere psicologico: gli elementi che ci fanno stare bene sono soprattutto altri. Lo spiega Antonio Cerasa, neuroscienziato dell’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica del Cnr

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La felicità è un obiettivo al quale tutti tendiamo, non è però semplice raggiungerla, anche perché è difficile capire cosa possa renderci felici. Tra gli elementi considerati fondamentali c’è sicuramente il denaro: ma è davvero così? Sulla diffusa convinzione che il benessere materiale garantisca questo stato d’animo sono state effettuate diverse ricerche scientifiche. Tra queste, una è stata condotta dal premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman e pubblicata nel 2010 sulla rivista Pnas: ne è emerso che “benessere emotivo”, altrimenti detto felicità vissuta,  e “valutazione della vita”, intesa come interpretazione cognitiva della propria intera esistenza, migliorano effettivamente con lo stipendio. Ma la proporzione si interrompe quando si raggiungono i 75.000 dollari l’anno.

Questa  pubblicazione, che ha fatto il giro del mondo, è stata però smentita da uno studio più recente, pubblicato nel 2021 sulla stessa rivista da Matthew A. Killingsworth: “Il ricercatore dell’Università della Virginia, a differenza di Kahneman, non ha utilizzato test psicologici in cui si chiede ai soggetti di ricordare il loro passato, ma dati in real-time sul benessere percepito, acquisiti via smartphone, scoprendo che dopo tale soglia di reddito aumenta in maniera ancora più netta la sensazione di benessere, la percezione della soddisfazione per la propria vita si stabilizza”, spiega Antonio Cerasa, neuroscienziato dell’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica (Irib) del Cnr.

In sostanza, una maggiore disponibilità economica permette di provare più frequentemente piacere e di soddisfare i bisogni primari, ma non incide sulla percezione di chi siamo e di quello che abbiamo realizzato, che non è correlata al denaro: “Tra gli elementi da considerare, c’è la valutazione dei sacrifici, delle azioni messe in campo e delle rinunce fatte per arrivare ad avere una maggiore stabilità economica”, evidenzia il ricercatore del Cnr-Irib. “Nel passato, l’archetipo sociale del sacrificio era uno degli indicatori di maggiore soddisfazione esistenziale, oggi invece questo valore sociale viene spesso sostituito con il concetto della rapidità con cui siamo riusciti ad arrivare a un certo livello. Questo si lega all’attuazione di strategie non legate alla perseveranza, ma concentrate sull’immediato beneficio”.

Donna contenta

Esistono poi numerosi bias cognitivi e sociali direttamente correlati al concetto di denaro, che alterano la nostra percezione della gratificazione psicologica, tra cui quello relativo al ruolo sociale che si ricopre: maggiore è l’incarico, più alti saranno gli introiti e maggiore sarà la mia gratificazione psicologica. “Neurobiologicamente parlando, la gratificazione psicologica deriva dalla soddisfazione di bisogni secondari quali autostima, autorealizzazione, autodeterminazione; ma esiste un altro bisogno secondario che spesso viene dimenticato e rappresenta invece il più potente induttore di felicità a livello biologico: la socializzazione. Maggiore è il nucleo sociale che mi sostiene, maggiore è la mia gratificazione psicologica”, conclude Cerasa. “Per chi crede fermamente che la felicità sia data dalla sola disponibilità economica e che questa si possa facilmente raggiungere con posizioni sociali e di carriera elevate, c’è una domanda a cui è difficile rispondere: perché affannarsi cosi tanto? Da cosa dipende la profonda spinta motivazionale che ci porta a raggiungere sempre nuovi traguardi? La risposta è scritta proprio nel bisogno di essere notati, dell’attenzione degli altri, di ricevere complimenti, in poche parole il ‘social reward’ è il più grande motivatore delle decisioni e strategie dell’essere umano. E questo non ha niente a che vedere con il denaro”.

Fonte: Antonio Cerasa, Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica, antonio.cerasa@irib.cnr.it

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