Cinescienza: Modi di dire

Abbiamo un problema. E non solo noi

Astronave che circumnaviga la Luna
di Danilo Santelli

Il film “Apollo 13” racconta le vicissitudini dell’equipaggio dell’astronave statunitense che, nel 1970, nel corso di una missione lunare, a causa di un’esplosione fu costretto a un rocambolesco e repentino rientro sulla Terra, che si concluse con un lieto fine. Della disavventura rimase famosa la frase "Houston, we have a problem", pronunciata dall'astronauta Jack Swigert. Con l’astrofisico Luciano Anselmo dell’Istituto di scienza e tecnologie  dell'informazione "Alessandro Faedo" del Cnr abbiamo esaminato le difficoltà affrontate dagli astronauti nei viaggi spaziali

Pubblicato il

Cosa successe all’Apollo 13 nella missione che nell’aprile del 1970 avrebbe dovuto portare tre astronauti al terzo allunaggio statunitense e che invece si concluse - a seguito dell'esplosione dei serbatoi dell'ossigeno comunicata dall'equipaggio con la frase divenuta famosa "Houston, abbiamo un problema" - con un ritorno sulla Terra che sa di drammatico successo? La pellicola del regista Ron Howard, che prende il nome della missione, ha solo in parte romanzato gli eventi, ispirandosi al libro “Lost Moon: The Perilous Voyage of Apollo 13”, scritto a quattro mani dallo stesso comandante del modulo lunare, Jim Lovell, che è interpretato da Tom Hanks e che, assieme a Kevin Bacon e Bill Paxton, è protagonista di una storia che tenne in apprensione il mondo intero concludendosi poi con il recupero della capsula spaziale e dei tre astronauti, salvi e in buona salute, dopo il rientro sulla Terra e l’ammaraggio nell’oceano Pacifico.

Abbiamo chiesto a Luciano Anselmo, astrofisico dell’Istituto di scienza e tecnologie dell'informazione "Alessandro Faedo" (Isti) del Cnr di Pisa, quali furono le cause che portarono allo scoppio del serbatoio dell’Apollo 13. “Prima di compiere qualsiasi missione spaziale vengono effettuati diversi test a terra, per verificare il funzionamento dei componenti principali dei moduli che andranno in orbita. Nel corso di una di queste prove, venne danneggiato un circuito elettrico per un errore umano, ma nessuno si accorse del problema, anche perché i risultati delle verifiche furono buoni. Una volta nello spazio, durante un’operazione di routine, ci fu un corto circuito che causò l’esplosione di un serbatoio contenente ossigeno liquido all’interno del modulo di servizio, dove alloggiavano i sistemi di propulsione e di produzione di energia elettrica. La conseguenza fu l’interruzione del flusso di elettricità, che costrinse l’equipaggio ad abbandonare la missione per rientrare sulla Terra attraverso una traiettoria di circumnavigazione della Luna, utilizzata come boa gravitazionale. Il ritorno, pur con molte difficoltà, avvenne con successo e Lovell, Swigert e Haise riuscirono a salvarsi la vita”.

Operazione di recupero in mare della capsula dell'Apollo 13

Operazione di recupero in mare della capsula dell'Apollo 13

Le condizioni di vita all’interno dei moduli spaziali sono sempre molto difficoltose, non solo quando gli equipaggi si trovano in situazioni estreme o impreviste, e obbligano gli astronauti a una preparazione fisica specifica per affrontare le missioni in condizioni ottimali. “A parte le quarantene, che sono previste per tutti e che servono a stabilizzare la salute prima della partenza, le conseguenze della permanenza a bordo sono diverse a seconda della tipologia di missione”, prosegue l’astrofisico. “Se si pensa a quelle brevi, come le Apollo, che si svolgevano in meno di due settimane, il problema principale era rappresentato dal cosiddetto mal di spazio, quello che gli americani chiamano ‘motion (o space) sickness’, legato al movimento in condizioni di assenza di peso. È una sintomatologia connessa al sistema vestibolare dell’orecchio interno, che colpisce circa la metà degli astronauti nelle prime ore o al massimo nei primi giorni di missione e che ha un impatto maggiore proprio sulle operazioni di breve durata. Può portare a nausea, vomito, mal di testa e vertigini, ma oggi gli effetti vengono mitigati attraverso l’utilizzo di medicinali specifici. Le lunghe permanenze in mancanza di peso, come sulle stazioni spaziali, determinano invece la demineralizzazione delle ossa e la perdita di tono e massa muscolare, nonché la redistribuzione dei fluidi all’interno dell’organismo, con aumento della pressione endocranica e oculare, che causa in alcuni casi problemi al sistema cardiocircolatorio.  Questi effetti, per alcuni aspetti simili a quelli che subiscono le persone costrette a letto per molto tempo, vengono contrastati dagli astronauti effettuando particolari esercizi fisici, seguendo diete appropriate e indossando tute a pressione negativa in grado di richiamare fluidi negli arti inferiori”.

Ma il pericolo più insidioso è quello che risulta invisibile agli occhi, ossia le conseguenze determinate dall’esposizione alle radiazioni, diverse a seconda della durata della missione, della distanza dalla Terra e delle diverse caratteristiche delle sorgenti. “In orbita bassa si è protetti in parte dal campo magnetico del nostro Pianeta, ma l’esposizione a cui vengono sottoposti gli astronauti nelle missioni all’interno delle stazioni spaziali, che possono durare più di un anno, è paragonabile o superiore a quella che hanno subito le popolazioni che vivono nei pressi di Fukushima, in Giappone, in seguito all’incidente occorso alla centrale nucleare nel 2011. Per questo motivo, almeno in Occidente, ogni astronauta ha un limite di esposizione che nel corso della propria carriera non può superare, per evitare di aumentare troppo il rischio di contrarre malattie oncologiche”, conclude Anselmo.

Argomenti