Editoriale

Post-verità, scienza e presunzione

fake
di Marco Ferrazzoli

Commenti autorevoli reclamano strumenti contro la diffusione delle false notizie in rete, altri attaccano giornali e tg. Anche le nostre esperienze dirette sui social network ci mostrano aberrazioni contro le quali l'unico antidoto è l'onestà intellettuale e imparare a gerarchizzare le fonti. Il problema investe ovviamente la scienza. Ma la tentazione dei ricercatori di abbandonare il confronto pubblico è perdente, per quanto sia comprensibile l'irritazione provocata dagli interlocutori più saccenti

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I lettori più attenti avranno notato, nel dibattito delle scorse settimane, il neologismo 'post-verità'. La questione ha sollevato commenti autorevoli. Il presidente dell'Antitrust Giovanni Pitruzzella, in un'intervista al Financial Times, ha proposto contro la diffusione delle false notizie una rete di organismi nazionali coordinati a livello comunitario. Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha dichiarato che “sono i mezzi di informazione tradizionali, seri e professionali che ci impediscono di assuefarci ad un'era di post-verità". Mentre Beppe Grillo ha attaccato il presidente dell'Antitrust e il premier con un post intitolato 'Post verità? Nuova inquisizione' e ha definito giornali e tg “i primi fabbricatori di notizie false nel Paese", lanciando la proposta di una giuria popolare. Molti giornalisti hanno reagito: da Enrico Mentana a Tommaso Cerno de L'Espresso, fino al segretario e al presidente della Federazione della stampa, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti.

Ma per affrontare un tema così impegnativo, è forse meglio partire dalle nostre minimali esperienze dirette sui social network. Su Facebook, per esempio, capita continuamente di notare come, nelle conversazioni, risposte e commenti identici si ripetano, poiché quasi tutti si limitano a leggere il post della domanda iniziale. L'interattività che dovrebbe rappresentare una delle caratteristiche fondanti dei social, assieme all'immediatezza e all'ampiezza potenziale del bacino destinatario, molto spesso si risolve in un coacervo di soliloqui ed esternazioni in cui nessuno considera ciò che gli altri dicono, se non per cercare conferme e spunti a quanto vuole già affermare. Oppure per lanciare provocazioni, critiche generiche, talvolta tracimando nell'insulto, magari con il recondito obiettivo di farsi pubblicità tirando in ballo un soggetto popolare o autorevole.

Si tratta di aberrazioni specifiche dei social? No, possiamo forse dire che amplificano dinamiche che non nascono con il web 2.0. Pensiamo al mercato editoriale librario, in particolare della narrativa e della poesia, un profluvio di libri sconosciuti che in gran parte finiscono al macero, scritti e pubblicati per volontà dell'autore più che per l'esistenza di lettori reali. Gli italiani sembra scrivano molto più di quanto leggono, insomma. Per non parlare delle chiacchiere da bar, da autobus e da ascensore, nelle quali spesso scambiamo e riportiamo banali ed erronei luoghi comuni. Ma anche quando il mainstream era quello televisivo certi meccanismi di massa agivano in modo analogo, come attesta l'espressione “l'ha detto la tv”, un tempo usatissima.

L'unico antidoto alla diffusione di certi mali è l'onestà intellettuale che però richiede tempo, pazienza, umiltà e soprattutto curiosità di sapere: senza questo approccio socratico le bufale prolificano. L'ostacolo alla corretta informazione non è la mancanza di conoscenza, se accompagnata da onestà. Paradossalmente, anzi, rischia di essere più pericoloso lo scarso e confuso possesso di qualche nozione su cui si sedimenta un pregiudizio, tant'è che, ad esempio, il target più ostile ai vaccini è quello delle mamme colte e benestanti. Quanto spesso vediamo opporre, a una persona competente, l'obiezione: “Ma io ho letto su internet che…”? Su internet si legge di tutto e il contrario di tutto e prima del debunking, l'azione di smascheramento delle fake news, bisogna saper gerarchizzare le fonti.

Certo, l'illusione che la maggior quantità di informazioni disponibili aumentasse cultura, competenza e consapevolezza è in parte naufragata. Abbiamo confermato, com'è noto dagli studi sociali, che qualunque povertà, culturale o materiale, si misura con i relativi effetti e se la quantità di informazioni generali cresce in misura maggiore della quota che posso controllare, divento più 'ignorante'. Del resto, anche qui insegna la nostra esperienza minuta, le mail o i messaggi che riceviamo, spesso ingestibili, ci portano a non rispondere, magari a danno delle comunicazioni importanti.

Il problema di adattare individui e collettività a media che si sono evoluti esponenzialmente in un arco di tempo relativamente ristretto riguarda la scienza, così come la giustizia, la politica, il diritto: in tutti gli ambiti le informazioni dovrebbero essere maggiormente garantite dalle fonti originari e dai mediatori che le diffondono. Ma se la tentazione di abbandonare il confronto con una massa di interlocutori inconsapevoli e spesso saccenti è legittima, da parte di chi possiede competenze in un settore acquisite con anni di lavoro e di studio, bisogna ricordare che è anche perdente.

"Qui ha diritto di parola solo chi ha studiato. La scienza non è democratica", ha scritto sulla sua pagina Facebook Roberto Burioni, ordinario di Virologia all'Università Vita-Salute San Raffaele, dopo le risposte al post in cui chiariva che i recenti casi di meningite non sono dovuti al contagio da migranti: "I dati scientifici non sono sottoposti a validazione elettorale: se anche il 99% del mondo votasse che due più due fa cinque, continuerebbe a fare quattro". La polemica è esplosa anche oltre il web: “Per alcuni, Burioni è un eroe”, ha commentato il Foglio. Anche Edoardo Boncinelli, uno degli scienziati italiani che più si spende in divulgazione, ha di recente alzato bandiera bianca: “Abbandono Facebook! Mi dispiace per tutte le persone degne che corrispondono con me, ma l'indegnità delle persone indegne non mi è più tollerabile. Il brutto è che molti di questi sono professori!”.

Amarezze comprensibilissime, ripetiamo. Ma chi conosce, chi sa, chi studia, deve continuare a condividere la propria competenza con i pubblici, è anche un dovere pratico, in una società sempre più liquida e interconnessa, in cui le maglie delle reti sociali sono intricatissime. Nonostante la presunzione di tanti, talvolta davvero irritante.

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