Spingendo più in là il giornalismo
Mario Calabresi è stato tra l'altro direttore della “Stampa” e di “Repubblica”, ma da tempo si dedica alla sperimentazione di nuove tecniche di informazione quali podcast, newsletter e blog. Tra i suoi libri “Spingendo la notte più in là”, la storia del padre, il commissario Luigi barbaramente ucciso negli anni di piombo, e delle conseguenze del terrorismo. “Chi oggi si preoccupa dell'odio sui social non sa o non ricorda che c'è stato un periodo nella storia italiana terribilmente più violento”, ricorda. Con lui abbiamo parlato soprattutto di stampa e online, dei ritardi di giornalisti ed editori rispetto alla rivoluzione digitale. “Come nel vostro settore: dopo la crisi del 2008 dovevamo investire di più proprio in ricerca e sviluppo”
Mario Calabresi è un giornalista, scrittore e conduttore televisivo che per venticinque anni ha lavorato nel mondo dell'informazione, ricoprendo incarichi di rilevanza quali quelli di direttore della “Stampa” e di “Repubblica”. La sua carriera lo ha visto strettamente legato ai temi politici e tradizionali, ma da tempo si dedica soprattutto alla sperimentazione di nuove forme di giornalismo quali podcast, newsletter e blog. Già nel 2009 realizza l'integrazione tra carta e digitale creando, tra l'altro, il primo museo di un giornale; contribuendo a fondare il progetto Europa; lavorando con Google alla creazione della Digital News Initiative e dello standard Amp. Nel 2016 punta ancor più sull'innovazione del settore lanciando l'app “Rep” e i Facebook live in Italia. È autore di sei libri. Nel primo, “Spingendo la notte più in là”, racconta la storia della sua famiglia, del padre, il commissario Luigi che fu barbaramente ucciso negli anni di piombo, e delle conseguenze del terrorismo sulle vittime e sulla società italiana.
Qual è stata la spinta che l'ha portata ad abbandonare gli studi storici per il giornalismo? Come è nata questa passione?
A dire il vero già da ragazzino mi appassionava ascoltare e raccontare, interrogare, indagare chiunque, dai miei nonni ai vicini di casa, per ascoltare per esempio le loro vicende biografiche, i ricordi e l'esperienza della guerra… Questo modo di intendere il giornalismo mi è rimasto dentro, quindi se non vogliamo chiamarla vocazione direi di avere un'indole verso questo approccio. Sono convinto che nell'umanità, nelle persone, nella gente ci siano infinite storie che dovremmo andare a scavare perché meritano di essere conosciute. Dal punto di vista universitario, inizialmente mi ero iscritto a Legge con l'intenzione di entrare nella magistratura ma avere seguito il processo dopo la morte di mio padre è stato troppo doloroso: ho capito che non volevo né potevo più lavorare in quel mondo e allora mi sono iscritto a Storia contemporanea. Però mi sono reso conto che il giornalismo mi affascinava di più, che mi dava la possibilità di fare in qualche modo lo storico del presente. E poi forse sono una persona troppo irrequieta: non sarei riuscito a lavorare in un archivio, preferivo l'indagine diretta.
Alla carriera da giornalista ha aggiunto quella da scrittore. A quale suo libro è maggiormente legato?
Certo, il libro a cui sono più emotivamente legato, anche se è stato molto faticoso e doloroso scriverlo, è “Spingendo la notte più in là”. Non soltanto perché racconto la mia vicenda personale di figlio del commissario Calabresi, ma perché riguarda un periodo che è stato fondamentale nella nostra storia. Sono però anche molto legato ad “A occhi aperti”, che è una serie di storie di famosi fotografi, una decina tra i più famosi al mondo.
L'omicidio di suo padre ha ovviamente segnato la sua vita. Stava accennando all'effetto del terrorismo sulla storia italiana, alle sue conseguenze: quali sono, viste a tanti anni di distanza?
Quando vado a raccontare queste cose, soprattutto nelle scuole, mi preoccupo di cercare di far capire come le derive violente della politica siano state un fattore distruttivo della nostra società. Chi oggi si preoccupa dell'odio sui social, dell'hating nella Rete, da un certo lato, mi fa un po' ridere. A queste persone rispondo chiedendo: ma sapete di cosa state parlando, che c'è stato un periodo nella storia italiana dove l'odio era tutt'altra cosa, terribilmente più concreta? Nel solo 1977, per fare un esempio, ci sono stati circa 4.000 atti di violenza politica grave, dall'uso della chiave inglese e della spranga alla bomba molotov, fino agli omicidi e agli attentati con i morti. Quindi, chi dice che oggi c'è un clima di odio che non abbiamo mai avuto in passato, mi dispiace essere duro nel dirlo, fa solo chiacchiere da bar. Semmai quello che viviamo oggi è un periodo di disimpegno, di disillusione, di cinismo, ma non certo di violenza come quella che abbiamo conosciuto in quel periodo.
Da tempo segue e sperimenta nuove forme di giornalismo: podcast, newsletter, blog. È possibile, specie in Italia, l'ibridazione o la convivenza tra stampa e online, oppure il “vecchio” giornalismo è ormai spacciato?
Riguardo alla rivoluzione digitale certamente c'è stata una mancata comprensione da parte di noi giornalisti di quanto stava accadendo, cioè che la centralità dei giornali cartacei, che consideravamo eterna, in realtà era soggetta a una disruption che prosegue tutt'ora, quella per la quale oggi Twitter e Facebook sostituiscono normalmente la lettura del giornale. Questa è la responsabilità dei giornalisti, anche se qualcuno come me provava a battere strade diverse, magari con il proprio blog. C'è però la responsabilità, a mio avviso più pesante, degli editori italiani, che invece di fronte alla crisi non hanno fatto investimenti e hanno operato soltanto tagli. Un atteggiamento ben diverso da quanto è accaduto all'Estero. Facciamo l'esempio del New York Times, che ha raccolto ben 600mila abbonamenti digitali in tre mesi e produce una serie di contenuti podcast, video e fotografici per arricchire le proprie versioni digitali. Ma anche il gruppo Springer in Germania, altri gruppi editoriali in Nord Europa, persino il Paìs ha sì operato tagli drammatici, ma accompagnandoli con investimenti sulle nuove tecnologie. Ecco, quello che noi non facciamo in Italia è investire in innovazione quando ci troviamo di fronte a una crisi e operare soltanto con tagli ai costi. Questo discorso mi pare si adatti molto al vostro campo di lavoro: dopo la crisi del 2008 non si è capito, che è proprio in ricerca e sviluppo che dovevamo investire di più perché si tratta dell'unica pianta anticiclica nei suoi frutti, altrimenti tagliare significa solo tagliare le radici dell'albero.
L'online ucciderà l'autorevolezza che un tempo era della carta stampata?
Non bisogna assolutamente stabilire l'equivalenza tra carta e buona informazione, è totalmente sbagliato. Non è il supporto quello che conta, quello che fa la differenza è la qualità. La Rete purtroppo spesso offre una cattiva informazione, i giornali ne dovrebbero offrire una migliore, ma la differenza non è il tipo di supporto: nell'era delle informazioni ognuno legge e leggerà sul supporto che preferisce.
Dopo tanti anni nelle redazioni e alla direzione di importanti quotidiani non le manca quindi quel lavoro, quel mondo?
Fermo restando quanto ho detto, non è difficile fare previsioni. L'evoluzione tecnologica e culturale ci porterà sicuramente entro un arco di tempo molto breve, di 5 o 10 anni al massimo, a ridurre i giornali cartacei a una lettura veramente residuale, minimale. Questo può nostalgicamente dispiacerci ma non ci deve preoccupare se trasferiamo quella informazione di qualità su altri supporti, se convinciamo i lettori a trasferirsi su quei supporti e manteniamo quindi il rapporto con i nostri lettori.
A proposito, che differenza c'è tra il rapporto con i follower e quello con i lettori di giornali tradizionali?
Per quanto riguarda il rapporto personale, diretto, umano con i lettori che i social sembrano consentire di più, nel bene e nel male, ricordo che quando ero direttore di Repubblica curavo anche la rubrica della posta e mi facevo selezionare ogni giorno ben 40 lettere: le leggevo tutte, a una rispondevo pubblicamente e a molte altre privatamente. E poi ho organizzato interviste con gli abbonati, incontri e iniziative con i lettori sul territorio… Proprio perché sono convinto che si debba stabilire con i lettori un rapporto di tipo anche umano, personale, creando confidenza e convinzione. Tutti i nuovi esperimenti editoriali e genericamente commerciali dimostrano che conta soprattutto stabilire una relazione tra chi produce e vende e chi acquista e legge: un rapporto duraturo non è solo più profondo ma anche più redditizio economicamente.
Lei descrive il giornalismo come “curiosità per tutto quello che accade nel mondo”. Oggi cosa le sta più a cuore raccontare? Il Covid-19, inevitabilmente?
Ho fatto per 25 anni giornalismo tradizionale, mi è piaciuto tantissimo, ma adesso mi muovo su altri terreni, la newsletter, il podcast, il mio blog. Quello a cui faccio molta attenzione però, su questi canali di comunicazione digitale, è non stare dietro al tweet del momento o allo strillo del titolo di giornale o dell'apertura dei Tg. E credo che questo faccia la differenza: andare a cercare le storie, raccontarle, cercare di capire cosa succede. Faccio proprio l'esempio del Coronavirus: ho scritto sul mio blog decine di storie di persone che raccontavano la loro esperienza al riguardo, come il vostro tecnico Marco Casula che è rimasto bloccato dalla pandemia alle Isole Svalbard, vicino al Polo Nord. Io credo che di questo soprattutto ci sia bisogno, raccontare storie, in un mondo di informazione così affollata di notizie che non riusciamo a ormai più nemmeno a gestirle.