Piersanti: la poesia e l’attualità della memoria
Umberto Piersanti (Urbino, 1941) è uno dei maggiori poeti contemporanei ed è stato candidato al Nobel per la letteratura. Lo incontriamo per parlare dell'importanza di restare legati alle proprie radici per avere un futuro: “L’assoluto, gli archetipi, l'universale sembrano lontani dal nostro tempo, affogato nell'effimero”. E poi delle Cesane, del paesaggio collinare e dell'Italia centrale, di Urbino. E di Jacopo: un figlio autistico è “una presenza ineludibile, ineliminabile”
La poesia di Umberto Piersanti (Urbino, 1941) rimanda in modo evidente alle grandi fonti classiche e alla tradizione otto-novecentesca italiana. Vi si colgono echi di Ovidio, Pascoli, Carducci, Leopardi, in una rielaborazione intima eppure oggettiva. Tra i temi affrontati dal poeta, le Cesane del Montefeltro, la campagna, il paesaggio e la natura. Poi le radici, storiche e famigliari, il figlio Jacopo, affetto da autismo. La sofferenza di vivere. Piersanti ha pubblicato numerose raccolte poetiche, in parte tradotte: da “La breve stagione” (1967) e “Il tempo differente” (1974), a “Nel tempo che precede” (2002) e “L'albero delle nebbie” (2008), fino a “Nel folto dei sentieri” (2015) e “Campi d'ostinato amore” (2020). È anche autore di testi di saggistica, di romanzi tra cui “L'uomo delle Cesane” (1994) e di raccolte di racconti come “Anime perse” (2018). Ha inoltre realizzato quattro film. È stato docente di Lettere e, in “Cupo tempo gentile” (2012), ha raccontato la rivolta studentesca. Ha vinto prestigiosi premi ed è stato candidato al Nobel per la letteratura.
Ci troviamo nelle Cesane, un ricco ambiente naturale che è la sua patria poetica. Si considera un poeta territoriale o ecologista?
L'ecologia la rispetto, è importante, ma con me non c'entra niente. Quanto al territorio, Paolo Volponi diceva che in Italia locale fa rima con universale. Non ci sarebbe Pavese senza le Langhe, Carducci senza la Maremma, D'Annunzio senza l'Abruzzo. Bertolucci, la sua Parma e la sua Casarosa, la Val d'Orcia di Luzi, la Liguria di Montale sono universali. Quando si investe un luogo con uno sguardo intenso, totale, lo si trasforma, gli si dà una valenza universale.
E lei ha reso universali le Cesane del Montefeltro?
Ho tentato, se ci sono riuscito lo dirà il tempo. “Le nevi d'una volta / sulle Cesane / i volti d'una volta / sulle Cesane / le vicende d'una volta / sulle Cesane, / l'acqua del fosso forse / si è oscurata, / magari i ciclamini / dove hai sfiorato / la biscia che lì sotto / sta nascosta…”.
La sua è anche una resistenza alla globalizzazione, che rende tutti gli uomini indistinti, recidendone le radici?
Non saprei. Prendiamo Pier Paolo Pasolini o Ermanno Olmi: in loro c'è una volontà esplicita di contrapporre l'autenticità di un tempo all'inautenticità dell'oggi. In me questa contrapposizione non c'è, ma c'è la memoria. Guardi questa casa di caccia, qui mio zio girava con la giacca di velluto, sparava alle palombe e cercava i funghi. E poi la nonna Fenisa, il mio bisnonno, che diceva di incontrare il diavolo: è un mondo che non c'è più, quell’età è finita assieme alla mia infanzia.
Un mondo migliore, un’età più bella? O è la nostalgia a farli ricordare così?
Non mi interessa se più o meno bello, è stato il mio mondo. Io sono un poeta della memoria, rivendico la mia origine, non voglio dimenticare quanto le radici siano importanti. Se poi questa memoria significa altro, se qualcuno ci vede un rifiuto della globalizzazione va bene, ma non in chiave ideologica.
Se la poesia racconta la memoria, tempi declinati al passato, non si condanna all’inattualità?
Io non pretendo che la mia poesia sia la poesia di tutti, qualcun altro può anche fare poesia dell'attualità. Però mi sembra che il nostro tempo abbia perso il valore dell’attualità, di cui si dice sia tanto affamato, proprio perché non ha più senso della storia, delle cose passate. I nostri studenti conoscono la Seconda guerra mondiale ancora meno delle dinastie faraoniche. È attuale ciò che perdura nella memoria anche di chi non l'ha vissuto direttamente. Senza memoria non si è, non si ha futuro.
A volte però la cronaca si impone con una forza tale che la narrazione non può prescinderne. Pensiamo alla pandemia.
Certo, la cronaca s'impone, come la vita, e i poeti affrontano ciò che essa detta loro. Prendiamo “All'Italia” o “Ad Angelo Mai”: sono discorsi di cronaca. Ma quando Leopardi scrive “L'infinito” la cronaca cosa c'entra? La grande poesia italiana non è cronachistica. Di Carducci, che pure è stato tanto sociale e civile, ricordiamo soprattutto le poesie maremmane, che sono poesie esistenziali, “Davanti San Guido”.
“L’Infinito”: Leopardi guarda i Monti Sibillini. La patria poetica può essere scelta o trovata in un qualunque luogo, ma la dimensione collinare, appenninica, centro-italiana ha uno specifico particolare?
Carducci è le colline maremmane, Pascoli è la Romagna e la Toscana, D’Annunzio è l’Abruzzo e la Versilia. Poi Luzi, toscano con origini marchigiane, Caproni toscano, poco più a nord Bertolucci. Sì, esiste una dimensione collinare e dell'Italia centrale che rende la poesia di questa fetta del nostro territorio diversa, per esempio, dalla poesia milanese e del Nord intrisa di senso civile, oppure da quella della ribellione del Sud. Il centro è più vocato a una poesia lirica, paesaggistica, narrativa ed esistenziale.
Torniamo a Leopardi: chiunque, leggendolo, vi ritrova la propria esperienza. Oggi la poesia conserva questa forza di identificazione?
Ricordo però che Leopardi ai suoi tempi non fu molto amato. Manzoni stesso dice delle cose durissime su di lui, lo accusa di scrivere con una lingua antica. Anche la dimensione dell’assoluto leopardiano è stata spesso travisata, i marxisti hanno tentato di rendere Leopardi marxista, i cattolici di farlo spiritualista. Adesso c'è un tentativo di farlo gay. Ognuno l'ha tirato per la giacchetta. Ma il suo è un infinito cosmico. Per annegare, in Leopardi, basta la natura. La poesia, in fondo, è una riflessione continua sul senso delle cose e sulle domande di sempre.
Domande di sempre che non sembrano “trendy”, se guardiamo ai media odierni, social e mainstream…
L’assoluto, gli archetipi, l'universale, così come la memoria, sembrano lontani dal nostro tempo, affogato nell'effimero. Da anni guardo una rubrica televisiva di libri: non ha mai parlato di poesia, mentre spesso presenta graphic novel, che io chiamo fumetti. Accade un fatto di cronaca e subito ci si costruisce il romanzetto spicciolo sopra. I giornalisti televisivi scrivono i loro libri e li presentano ovunque. Tutti sono diventati romanzieri. Siamo invasi dall'effimero, è un’invasione. Io penso invece che dovremmo portare le domande della poesia in ogni luogo, a cominciare dalle carceri, dagli ospedali…
Quanto è legato a Urbino, dove è nato e vissuto a lungo?
A Urbino sono legatissimo, ma qualche volta mi sembra che Urbino non sia legata a me. E l'ho vissuta profondamente, soprattutto nell'infanzia. Sono nato in un appartamentino modesto sotto le scale di Villa Glori. Ricordo una porticina della filanda da cui si accedeva al rifugio, il rombo degli aerei. Mi ricordo che ci arrampicammo sui tetti quando arrivarono i carri armati dell'Ottava Armata britannica, le battaglie tra le vie e gli amori giovanili. E ricordo la campagna vicina, dove si andava a fare i capanni, il piacere di stare lì durante l'estate. Urbino e le Cesane: la polis, la città perfetta, di Raffaello; e il cosmo, la natura. Fra questi due poli forse ho dato più attenzione poetica alle Cesane, però è da Urbino che ho preso l'idea di un'armonia perfetta. E come presidente della Commissione Urbanistica ne ho difeso il paesaggio, convincendo il sindaco a imporre dodici chilometri di rispetto attorno alle mura. Urbino è la città che mi sta nel cuore.
E il contatto con i ragazzi, con i giovani? Insegnante per mestiere o vocazione?
Non si impara a insegnare, forse qualcosa si apprende ma occorre una vocazione. Per fare il professore non basta avere cultura e conoscenze, se non sai parlare, coinvolgere, interessare. Io ero un giovane professore che andava a ballare insieme ai ragazzi, molto vicino agli studenti, dopo la conclusione delle scuole ho avuto persino qualche filarino con alcune ex studentesse. Ma ero anche un professore che manteneva la severità. Poi è arrivato il ’68, di cui apprezzavo molte cose ma non accettavo gli estremismi, ho visto il cambiamento di generazione, di mentalità, di abbigliamento.
Jacopo. Un figlio autistico cambia, stravolge la vita dei genitori, della famiglia.
Jacopo è nato e di lì a poco io e mia moglie ci saremmo separati. Era molto bello, lo è ancora, conosceva le storie di Sigfrido, le favole che gli raccontavo, i colori. C'è stato un periodo in cui ancora riusciva a venire con me in giro per l'Italia, e vivevo il suo modo di essere in una dimensione un po’ mitica, come un essere fuori dal tempo, con una diversità anche positiva. Poi si è manifestato il disturbo pervasivo dello sviluppo, la sindrome dello spettro autistico che peggiora con l'età. Per Jacopo la durezza del vivere quotidiano significa camminare e spogliarsi per la strada, aprire gli sportelli e buttare tutto per aria, non dormire la notte. È un'esperienza molto dura. Dopo qualche tempo sono tornato a vivere con lui e con la madre a Civitanova Alta, in collina, dove c'è una bella vista verso il mare. Si può abbandonare una donna, un uomo, ma non si può abbandonare un figlio autistico.
Anche il dolore e la malattia sono diventati poesia. Una consolazione, una necessità?
C’è stata la depressione, per molto tempo non ho voluto parlare di Jacopo. Poi ho cominciato e ne ho scritto tanto. Se mi consola? No, però è necessario, lo devo fare. Jacopo è una presenza ineludibile, ineliminabile. L’alpinista dice: salgo nella montagna perché c'è. Jacopo c'è, e occupa una parte importante della mia vita. “[…] ma il tuo male / figlio delicato, / quel pianto che non sai / se riso, stridulo / che la gola t’afferra / più d’ogni artiglio, / questa bella famiglia / d’erbe e animali / fa cupa / e senza senso / e dolorosa”.
A questo link, Umberto Piersanti legge alcune poesie: https://www.cnrweb.tv/la-poesia-di-umberto-piersanti/