Doping: prevenirlo è meglio che punirlo
Il ricorso a sostanze dopanti è una pratica antica, risalente addirittura agli atleti greci e romani, che, pur se contrastata a livello internazionale, continua a essere diffusa. Per sconfiggerla occorre, dunque - spiegano i ricercatori dell'Ifc-Cnr - un approccio complesso, che tenga conto del profilo psicologico e del contesto sociale ed emotivo degli sportivi
Tra gli atleti olimpici più famosi accusati di doping ci sono il velocista canadese Ben Johnson, campione dei 100 metri piani ai Giochi di Seul del 1998, e la statunitense Marion Jones, regina dell'atletica, che a Sidney 2000 conquistò ben cinque medaglie. Nel nostro Paese, grande scalpore ha suscitato l'esclusione, alla vigilia di Londra 2012, del maratoneta Alex Schwarzer, risultato positivo a un controllo anti-doping: l'atleta altoatesino, che aveva concluso un lungo periodo di squalifica ad aprile di quest'anno, pur essendosi qualificato per Rio 2016, resterà di nuovo fuori dai Giochi per aver assunto ancora, sembra, anabolizzanti. C'è poi il caso dell'azzurra del beach volley Viktoria Orsi risultata positiva a un controllo a 3 giorni dall'inaugurazione, in seguito all'assunzione di uno steroide anabolizzante, Clamorosa, infine, la situazione della Russia, accusata di aver creato un programma di doping sostenuto dallo Stato e per la quale il Comitato olimpico internazionale (Cio) ha stabilito che saranno le singole federazioni sportive a decidere se consentire ai tesserati russi la partecipazione alle Olimpiadi di Rio.
Il ricorso a sostanze in grado di aumentare il rendimento fisico appare una tentazione irresistibile a tutte le latitudini e in tutte le discipline. Ma non si tratta di una pratica recente: “Già presso gli antichi greci e romani ci sono notizie di pratiche dopanti con caratteristiche farmacologiche, fino ad arrivare al 1896 con la prima documentazione di morte per crisi cardiaca, per eccesso di stimolanti, in un atleta ciclista gallese”, spiega Alessandro Pingitore dell'Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa. “Nel 1967, dopo il decesso di un ciclista danese al Tour de France in seguito all'assunzione di anfetamine, il Cio istituì una commissione medica per stilare un elenco di sostanze vietate agli atleti durante le competizioni sportive di qualsiasi livello e disciplina. Da allora, grazie alla collaborazione con strutture internazionali come il World Anti-Doping Agency (Wada) e a sempre più sofisticati metodi di analisi, la lista viene annualmente revisionata e approvata da tutte le nazioni che hanno istituito leggi specifiche per promuovere la lotta al doping”.
In Italia il doping è reato penale ed è normato dalla legge n. 376 (art. 1) del 2000 del ministero della Salute, che lo definisce come “la somministrazione o l'assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l'adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell'organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”. Ma la lotta a questa pratica è una preoccupazione internazionale: “Tra le recenti strategie introdotte dal Wada c'è la creazione del passaporto biologico dell'atleta (Pba), che consiste nel monitoraggio longitudinale di alcuni parametri ematici che possono essere alterati dall'assunzione di sostanze dopanti”, continua il ricercatore dell'Ifc-Cnr. “L'evoluzione di questa tecnica, che non rileva direttamente la presenza di sostanze ma indica un'anomalia che potrebbe suggerirla, sarà lo sviluppo e l'aggiunta di altri sistemi di controllo, come ad esempio quello endocrino o 'omico' (genomico, proteomico, microbiomico, etc.) per la ricerca di alterazioni dei profili metabolici a diversi livelli”.
Il Pba inoltre evidenzia i fattori che predispongono alla pratica del doping. “In un recente studio condotto su 2.737 atleti professionisti durante periodi di training e in corrispondenza delle competizioni agonistiche, è emerso come il Paese d'origine, oltre a quello più prettamente sportivo incida nella frequenza dei casi di doping”, aggiunge Lorenza Pratali dell'Ifc-Cnr. “L'ampia variabilità dell'incidenza (dall'1% al 48%) è quindi legata sia al tipo di sport praticato sia alla nazione di appartenenza”.
Altro fattore predisponente sembra essere la pratica di uno sport individuale, anche se va considerato che negli sport di squadra i controlli sono di solito minori. Un ruolo hanno inoltre elementi di natura psicologica e sociale. “Un recente studio italiano ha evidenziato come la tendenza al perfezionismo, la motivazione sportiva e la fiducia in se stessi, oppure correlati sociali, come il contatto con atleti che fanno uso di sostanza dopanti, possano indurre al ricorso al doping”, precisa Francesca Mastorci dell'Ifc-Cnr.
Conoscere i fattori di rischio può essere utile per la messa a punto di un'efficace strategia preventiva. “L'informazione, la definizione del profilo psicologico, del contesto sociale ed emotivo dell'atleta e una maggiore consapevolezza dei potenziali effetti secondari, a breve e medio termine, dovrebbero essere i punti cardine dei nuovi programmi di prevenzione e delle future linee guida", conclude la ricercatrice.
Fonte: Francesca Mastorci, Istituto di fisiologia clinica, Pisa, e-mail: mastorcif@ifc.cnr.it; Alessandro Pingitore, Istituto di fisiologia clinica, Pisa, tel. 050/3152605, e-mail: alessandro.pingitore@ifc.cnr.it; Lorenza Pratali, Istituto di fisiologia clinica, Pisa, e-mail: lorenza@ifc.cnr.it