Mario Melazzini, medico e paziente
La testimonianza di un ricercatore cui viene diagnosticata la Sla ma che non si arrende alla patologia: anzi, rafforza il suo impegno professionale e associativo a favore degli altri malati. “Mi sono scontrato con l'impotenza della scienza medica contro determinate patologie. Ma proprio per questo ho deciso di mettere a disposizione la mia esperienza di clinico e amministratore al servizio del bene comune”
Mario Melazzini, nato nel 1958, si laurea in medicina a Pavia nel 1985 e si specializza in ematologia generale clinica e laboratorio. La sua carriera in ambito sanitario - che lo ha portato a svolgere molti importanti ruoli, fino all'attuale incarico di direttore scientifico centrale e amministratore delegato dell'Ics Maugeri - è destinata a cambiare per sempre nel 2003, quando gli viene diagnosticata la Sclerosi laterale amiotrofica. La patologia non lo porta però certo a ridurre il suo attivismo professionale e associativo a favore degli altri malati, declinato attraverso due strade che persegue con tale impegno da conseguire, nel 2017, l'onorificenza di commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana: da un lato l'attività di studio e ricerca in campo onco-ematologico come medico e ricercatore, dall'altro la battaglia sociale per i diritti di chi soffre, portata avanti all'interno di istituzioni pubbliche e associazioni.
Difficilmente riflettiamo sul fatto che anche chi cura o fa ricerca sulle malattie si ammala, come chiunque altro. Com'è cambiata la sua vita dal 2003?
Quando un mio collega mi ha guardato negli occhi e mi ha detto “Melazzini, lei ha la Sla”, mi sono sentito come tutti i malati gravi: un naufrago disperato. Da medico sono diventato un paziente e mi sono scontrato con l'impotenza della scienza medica contro determinate patologie. Ma proprio per questo ho deciso di mettere a disposizione la mia esperienza di ricercatore e di clinico, insieme a quella di amministratore. Sono un cittadino che ha deciso di fare un passo in più, impegnandosi personalmente in prima linea al servizio del bene comune.
Quindi la sua attività non si è mai fermata?
Non a causa della malattia. Al lavoro di ricerca presso la Fondazione e l'Istituto Maugeri di Pavia e al Centro clinico Nemo per la diagnosi e la cura delle malattie neuromuscolari, si sono progressivamente affiancati gli impegni pubblici: in Regione Lombardia – dove sono stato tre volte assessore: alla Sanità, alle Attività produttive, ricerca e innovazione e poi all'Università, ricerca e open innovation, oltre che direttore per la Programmazione sanitaria e coordinatore del Gruppo di approfondimento tecnico per le politiche per le persone con disabilità - e poi presso l'Aifa-Agenzia italiana del farmaco, della quale sono stato presidente e direttore generale dal 2016 al 2018. Per il ministero della Salute sono stato membro del Comitato tecnico sanitario e presidente della Commissione per la ricerca sanitaria; inoltre sono stato inserito nel Management board e nella Commissione prodotti medici per uso umano dell'Ema-European Medicine Agency. Infine, nel 2019, sono stato designato nel Consiglio di amministrazione del Consiglio nazionale delle ricerche.
Qualcuno l'ha addirittura accusata di accumulare troppi incarichi …
Nessuno potrà mai accusarmi di essere un “poltronista”: tra i pochissimi vantaggi della mia malattia c'è indubbiamente quello di non aver bisogno di poltrone. Ho infatti la mia, di carrozza, ahimé…
Cosa anima il suo impegno in ambito sociale?
Da medico ho sempre pensato che esercitando la mia professione avrei potuto essere utile agli altri: a guarire o almeno a lenire le sofferenze. Quando mi sono ritrovato io stesso nella condizione di malato ho intrapreso con ancora più forza la mia lotta per i diritti dei malati: per accedere ai farmaci più innovativi e per migliorare la qualità della vita, nella consapevolezza che essere colpito da una malattia che mortifica e limita il corpo non significa necessariamente l'impedimento a svolgere una vita piena e realizzata. È questo che orienta il mio lavoro all'interno della Fondazione italiana di ricerca per la Sclerosi laterale amiotrofica (Arisla), della quale sono cofondatore e sono stato da poco rieletto presidente e, precedentemente, come presidente dell'Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla) e segretario della Federazione italiana per il superamento dell'handicap (Fish).
Quali sono gli obiettivi dell'Arisla?
Siamo impegnati a coordinare e promuovere i migliori progetti di ricerca per rendere più incisivi ed efficaci gli investimenti e le opportunità nella ricerca sulla Sla: l'obiettivo è quello di sostenere il rapido trasferimento dei risultati scientifici alla pratica clinica. Dal 2008 ad oggi la Fondazione ha investito in ricerca oltre 11,5 milioni di euro, finanziando centinaia di progetti che stanno contribuendo a conoscere meglio questa malattia. Il cammino è ancora lungo: la medicina è meravigliosa, ma progredisce a passi purtroppo lenti.
Come vive oggi Mario Melazzini?
Dipendendo totalmente dagli altri. Essendo un paziente “esperto” sono stato consapevole fin dall'inizio del punto al quale mi avrebbe portato il progredire della malattia. Anche se soffro di una forma di Sla molto lenta, mi sento sempre più esausto, ogni giorno è sempre più faticoso. Ma ciò non significa che non riesca a rendere le mie giornate pienamente produttive: essere autonomi anche grazie all'aiuto e al supporto degli altri è bello. Ad esempio, lo dico ironicamente, l'essere nutrito e idratato artificialmente mi permette di lavorare anche in “pausa pranzo”, con buona pace dei miei collaboratori…
Cosa rimpiange di più della sua vita precedente alla malattia?
Sono da sempre un grande amante dello sport e della montagna: ammettere che non avrei più potuto scalare è stata una delle rinunce più dure. Guardavo quelle montagne da sotto in su e piangevo su me stesso, una rabbia sorda. Ci sono voluti mesi ma poi il mio sguardo è cambiato: ho capito che c'erano cose che non avrei potuto più fare, ma altrettante ne avrei potute scoprire, anche su una sedia a rotelle. Quando sono arrivato a comprendere che non dovevo concentrarmi su quello che non avrei più potuto fare, ma su quello che avrei potuto ancora fare per me stesso, e soprattutto per gli altri, le mie idee sono cambiate. Ciò non significa che non sia arrabbiato con la mia malattia, oggi come allora. A un certo punto mi sono anche sentito pronto ad andare a morire in Svizzera, poi ho cambiato idea. Come sulla ventilazione assistita: dieci anni fa non l'avrei mai accettata, oggi ringrazio l'esistenza delle macchine che mi permettono di vivere. Avere consapevolezza del proprio limite, come dico sempre, è una questione di sguardi e di speranza.