L'importanza del prendersi cura
Tra pandemie e guerre, Emergency porta avanti l’impegno di Gino Strada, occupandosi delle differenze sostanziali tra parte ricca e povera del mondo, e attraverso un diffuso impegno per la pace. L’antidoto a diverse ingiustizie per la presidente Rossella Miccio, è nelle piccole azioni quotidiane
Ogni guerra ha una costante: le vittime. A ricordarlo è Rossella Miccio, dal 2017 presidente di Emergency, l'associazione fondata da Gino Strada che, dice, "ci manca molto, ma ci ha lasciato una eredità forte”. La missione di Emergency è quella di offrire cure mediche e chirurgiche gratuite in zone di guerra, grazie al coordinamento e all'attività dei volontari sui territori colpiti. Dal 2015 Miccio è anche membro del Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo internazionale, composto dai rappresentanti delle maggiori organizzazioni italiane. L’abbiamo incontrata a margine di un intervento al Festival di scienza e filosofia di Foligno, in cui ha spiegato l’importanza del "prendersi cura" come antidoto alle guerre.
Il conflitto in Ucraina fa vacillare il nostro concetto di pace?
Trovarsi di nuovo la guerra in casa, in Europa, credo sia stato uno shock per tutti. Ci consideravamo un'oasi felice e invece così non è. Ma dovremmo ricordare che in tutto il mondo troviamo teatri di guerra. Questo vuol dire che i valori della pace su cui abbiamo costruito gli ultimi 70 anni del nostro continente vanno difesi strenuamente, ma non con le armi. Speriamo e auguriamoci che da questo shock si tragga una lezione importante: la guerra va cancellata dalla storia dell'umanità. Altrimenti sarà la guerra a cancellare l'umanità dalla storia.
In che modo Emergency è coinvolta nel sostenere la popolazione civile ucraina?
Faccio notare che, dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, i conflitti sono stati prevalentemente civili. Emergency si è mobilitata immediatamente, allo scoppio delle ostilità, per provare a supportare la popolazione civile. Da subito abbiamo preso contatti con le autorità di Kiev e sostenuto ospedali con l'invio di farmaci e materiali per la chirurgia di guerra. Inoltre, siamo presenti con un ambulatorio mobile in Moldavia, al confine con l'Ucraina, dove forniamo assistenza sanitaria e soprattutto supporto psicologico ai tanti profughi che scelgono di fermarsi al confine, animati dalla speranza di tornare presto a casa. E poi, nelle varie regioni d’Italia, abbiamo i nostri ambulatori fissi e mobili, che offrono supporto e orientamento sociosanitario ai profughi ucraini. Molti di loro, in particolare a Milano, li stiamo sostenendo anche mediante supporto alimentare e programmi di integrazione sociale.
Ci sono differenze tra l’Ucraina e gli altri Paesi in cui operate?
L'Ucraina a differenza di altri Paesi, ad esempio all'Afghanistan o al Sudan, possiede un sistema sanitario più solido. Ha strutture e competenze. Questo ha reso meno necessario l’invio del personale. Tuttavia, l’impossibilità o quasi di rifornimenti agli ospedali e il picco dei feriti ha fatto crescere il bisogno di soccorso. Ci sono magari delle necessità diverse rispetto a quelle di altri Paesi, ma al di là di tutto la realtà della guerra è costituita dalle vittime civili. Una costante in Ucraina, così come negli altri conflitti dove siamo stati presenti in questi 28 anni.
A proposito di altre aree in cui operate, quale soluzione vede per i flussi migratori che interessano il Mediterraneo?
Sulla Libia e il Mediterraneo ci sarebbe molto da fare. Che vi siano abusi, violazioni dei diritti umani nei campi di detenzione libici penso che ormai lo sappiano anche i sassi. Si continua a dare risposte emergenziali ai flussi che arrivano dalla Libia quando la situazione andrebbe gestita in altro modo con una presa di coscienza seria da parte dell'Italia ma anche dell'Europa. Invece di finanziare la guardia costiera libica, preferiremmo venissero dati soldi per tutelare la vita delle persone che provano a scegliere un futuro migliore fuggendo da guerra e povertà.
Che impatto ha avuto la pandemia da Covid-19 nei Paesi in cui siete presenti?
La pandemia ha colto di sorpresa un po’ tutti, l'impatto è stato forte. In Italia, nonostante il sistema sanitario sviluppato, abbiamo registrato troppi morti, anche a causa dei pochi investimenti sulla sanità degli ultimi anni. Ancora più difficile e drammatico è stato per i Paesi che hanno sistemi sanitari molto, molto fragili. Fuori dall’Occidente, dall’Europa, dagli Stati Uniti, c’è una enorme discrepanza in termini di accesso ai test diagnostici e ai vaccini. Per questo noi siamo impegnati da due anni, in una battaglia per la liberalizzazione dei brevetti sui vaccini, così da renderli disponibili anche ai Paesi più poveri. La pandemia ha reso chiaro che siamo tutti collegati, che non possiamo pensare di salvarci da soli, su questo c'è ancora molto da fare.
Da operatori umanitari avete avuto esperienza di altre epidemie, in quella da Covid-19 come vi siete organizzati?
L'impatto della pandemia sul nostro lavoro è stato pesante. È stato tutto molto complicato, anche perché si è trattato di un virus nuovo, che non si conosceva. Capire come proteggersi e come proteggere gli altri non è stato facile, nonostante avessimo esperienze di gestione di pandemie, come quella di Ebola in Africa occidentale. Tornando al Covid-19, la nostra prima preoccupazione è stata quella di proteggere gli ospedali nei quali lavoriamo. Per fortuna abbiamo le antenne alzate e siamo riusciti a fare formazione al nostro personale e a mandare, quasi dappertutto, materiale di protezione per lo staff. Questo ci ha garantito continuità di cure in tutte le strutture, nonostante le difficoltà per le chiusure dei confini tra i Paesi; anche solo dare il cambio al personale è stato davvero molto complicato. In Uganda abbiamo dovuto ritardare l'apertura di un ospedale che era pronto per ospitare i bambini che necessitavano di chirurgia pediatrica.
Cosa legge nel volto delle persone chi le soccorre?
Le accomuna la voglia di pace, di normalità e di serenità. La guerra non ha nulla di naturale, non è connaturata alla natura umana. A seconda del contesto ci sono poi delle differenze: l'Afghanistan è in guerra da 42 anni, fai fatica a pensare, un futuro diverso a immaginarvi una normalità. Anche per questo ci auguriamo che la guerra in Ucraina finisca nel più breve tempo possibile, per evitare che diventi un'abitudine. Purtroppo, che se ne parli o meno, i teatri di guerra prolungata sono tantissimi: pensiamo alla Siria, alla Libia, alla Somalia.
Da cittadini come si può dare il proprio contributo a Emergency?
Per fortuna sono molte le persone che vogliono partecipare al progetto di Emergency. Questa, ad esempio, era una cosa in cui Gino credeva molto. Emergency non è semplicemente un'organizzazione, è un progetto aperto a tutti quelli che ne condividono i valori e la visione. Ciascuno, con le proprie possibilità e con le proprie competenze, può essere d'aiuto. Dalle donazioni, per chi può, all’organizzazione di iniziative, eventi per far conoscere il nostro lavoro. C'è bisogno solo di un po’ di buona volontà e forse, di fantasia, per cooperare insieme.
Un ricordo di Gino Strada?
Gino in questi giorni manca tanto, manca a noi e a tante persone. Credo che manchi al Paese e al mondo la sua schiettezza, il suo parlare in maniera diretta e autorevole, senza secondi fini, contro la guerra. L'eredità che ci ha lasciato è importante, un'eredità aperta, condivisa, inclusiva che riguarda tutti. Siamo molto determinati nel continuare a portare avanti il suo messaggio. Stiamo riscontrando anche in queste settimane, dopo l'uscita del suo libro postumo “Una persona alla volta” (Feltrinelli), che tantissima gente ha voglia di impegnarsi in questo percorso di pace e di pratica dei diritti. È molto incoraggiante.