Il fondo del barile e il futuro dell’“estrattivismo”
Se da un lato, a causa del cambiamento climatico, è richiesto a gran voce di ridurre il consumo di fonti fossili per gli usi civili e industriali, dall'altro bisogna fronteggiare una crescente difficoltà nell'estrazione di questi combustibili. Non è facile fare a meno del petrolio sul breve termine, ma bisogna fare i conti con la sua sempre minore disponibilità. Abbiamo parlato di questo tema con Luca Pardi dell’Istituto per i processi chimico-fisici del Cnr
I rincari delle fonti fossili – in primis il petrolio, da cui la nostra economia dipende – fa tornare alla ribalta il problema della dipendenza energetica e dell’auspicata transizione verso le fonti rinnovabili, fondamentale per non aggravare il riscaldamento globale. Ma ipotizziamo per un attimo che il problema climatico non esista: continuando con i consumi energetici attuali, si può calcolare quando le fonti fossili si esauriranno, nel senso di non essere più convenienti per l’estrazione?
Lo abbiamo chiesto a Luca Pardi, primo ricercatore dell’Istituto per i processi chimico-fisici (Ipcf) del Cnr di Pisa ed ex presidente di Aspo Italia, l’Associazione per lo studio del picco del Petrolio. “Di petrolio e gas ne abbiamo ancora molto nel sottosuolo e il picco del petrolio convenzionale – quello che abbiamo estratto finora, considerato a buon mercato – dalle stime fatte da varie agenzie internazionali, è databile nella prima decade di questo millennio. Picco vuol dire massima capacità estrattiva possibile, alla quale segue un inevitabile declino della risorsa”.
Quindi, sempre facendo l’ipotesi che riempire l’atmosfera di anidride carbonica non danneggi gravemente l’equilibrio climatico, bisogna valutare per quanto tempo potremmo andare avanti. “Un conto è la quantità di petrolio e gas presente nel sottosuolo, un altro è la facilità con cui queste quantità possono essere raggiunte ed estratte”, precisa il ricercatore del Cnr-Ipcf. “L'indice usato quasi come uno standard per misure di questo tipo si chiama Eroi, acronimo di Energy Ruturn on Investment, ovvero l’energia necessaria per ottenere energia. Il concetto in sé è semplice, ma in certi contesti ne risulta difficoltoso il calcolo. Dobbiamo immaginare che all’inizio del XX secolo il petrolio statunitense aveva un Eroi di 100:1, ovvero per estrarre 100 barili di petrolio bastava l’equivalente energetico di 1. Il nostro stesso immaginario ricorda film in cui, nel Texas di 100 anni fa, bastava fare un buco per terra e vederlo spillare fuori. Ma sono bastati 60-70 anni e già nel 1990 il rapporto è diventato di 35:1, per arrivare oggi a un valore di circa 11:1. Questo è un aspetto fondamentale: se il costo energetico, e di conseguenza economico, dell’estrazione diventa insostenibile, può esserci tutto il petrolio che vogliamo, ma non sarà conveniente tirarlo fuori”.
La tecnologia in tutto questo ha un ruolo importante. “Senza un constante miglioramento tecnologico non saremmo nella condizione in cui ci troviamo adesso. Il 27 agosto del 1859 fu realizzato il primo pozzo petrolifero della storia a Titusville, in Pennsylvania. Se si vanno a cercare su Internet foto di quella struttura, non si vedrà altro che un traliccio di modeste dimensioni realizzato in legno, con un tubo che si infilava a terra a modeste profondità; pare che in quella zona si cominciasse a trovare petrolio a poco più di 20 metri dal livello del suolo”, conclude Pardi. “Basta paragonare questa struttura alla complessità di una piattaforma offshore per l’estrazione, come quella tristemente salita alle cronache nel Golfo del Messico, la Deepwater Horizon, per avere un’idea dell’evoluzione tecnologica e del dispendio energetico necessari per avere ancora il petrolio necessario ad andare avanti: la Deepwater nel 2009 ‘pescava’ a oltre 10.000 metri di profondità. La tecnologia ha avuto e ha un grande ruolo, come per quasi tutti i progressi materiali, ma non può fare miracoli”.
Per capire quali valori di Eroi siano sufficienti per il buon funzionamento della società dobbiamo far riferimento a un calcolo sperimentale di alcuni studiosi statunitensi, che indicano un valore minimo all’incirca di 5-6. Se si scende al di sotto, alcuni servizi potrebbero non funzionare più, creando una serie di problemi a catena. È questo il motivo per cui il petrolio che rimane dovrebbe essere usato per la transizione verso le nuove forme di energie di cui nel presente e in futuro avremo bisogno.
Fonte: Luca Pardi, Istituto per i processi chimico-fisici, e-mail: luca.pardi@pi.ipcf.cnr.it