Non tutti possono dare i numeri
Incontriamo Gian Carlo Blangiardo, presidente dell'Istat, per parlare dei fenomeni sociali su cui la pandemia sta agendo da amplificatore: il calo demografico, le fragilità, le migrazioni e la crisi di molti settori economici. “Occorre sviluppare una cultura statistica, interpretare correttamente i dati, capirne il messaggio e l'utilità, distinguere l'autorevolezza delle fonti”
Papa Bergoglio lo ha definito “inverno demografico”, auspicando l'arrivo di una “primavera di bambine e di bambini”. Ed è uno dei fenomeni sociali su cui la pandemia sta agendo da amplificatore, così come accade con i divari, le fragilità, le nuove povertà e la difficoltà di uscire dalla crisi economica. Ne parliamo con Gian Carlo Blangiardo, presidente dell'Istituto nazionale di statistica dal 4 febbraio 2019, docente di Demografia presso l'Università degli studi di Milano, dal 1977, e quindi Milano Bicocca, dal 1998, e già all'Istat come presidente della Commissione sugli aspetti tecnici e metodologici del Censimento della popolazione 2001 e membro del Comitato per la stima della povertà assoluta, delle Commissioni sulla misura del Benessere oltre il Pil e per la definizione dei Collegi elettorali plurinominali, di diversi Comitati nazionali e regionali. Blangiardo è autore di numerosi Rapporti sui temi affrontati in quest'intervista, oltre che di più di 250 pubblicazioni scientifiche e di articoli su riviste scientifiche e testate quali Il Sole24ore, Avvenire, Eco di Bergamo, Il Sussidiario.net.
Partiamo dai dati demografici, che appaiono condizionati dalla pandemia sia per l'aumento di mortalità, sia per l'ulteriore calo di natalità: è corretto?
Assolutamente sì. Tuttavia, mentre gli effetti sulla mortalità sono sotto gli occhi di tutti e ci vengono ricordati quotidianamente dai servizi televisivi, il calo delle nascite appare più sommesso. Il dato trova riscontro solo nelle statistiche del mese di dicembre e in parte di novembre, in quanto è legato al verosimile minor numero di gravidanze avviate nel mese di marzo 2020. C'è però da ritenere che sarà ben più visibile, credo anche con maggior evidenza, già in questi primi mesi del 2021.
Si accentua quindi il decremento della popolazione italiana. La situazione europea e "occidentale" qual è?
La pandemia incide, in Italia come altrove, sia sul saldo naturale, sempre più negativo per il surplus di decessi rispetto alle nascite, sia su quello migratorio: i limiti e le incertezze hanno scoraggiato la mobilità entro e fuori dai confini nazionali, almeno quella che non ha i caratteri della fuga. Nel 2020 la stima annua è di un saldo naturale negativo per circa 300 mila unità e di un calo del 42% della mobilità dall'estero nei primi otto mesi dell'anno. La conseguente riduzione del numero di residenti che ci accompagna regolarmente dal 2015 è dunque inevitabile. Va rilevato che in altri Paesi, la Francia ad esempio, l'effetto Covid-19 è stato altrettanto significativo, ma non tale da annullare il saldo naturale positivo e la crescita della popolazione. Da noi si è inserito in una realtà demografica già particolarmente debole.
I dati confermano la soggezione dei fenomeni sociali ai paradigmi, agli scenari, agli immaginari culturali, alle percezioni psicologiche?
I dati statistici riflettono il comportamento delle persone che, a loro volta, risentono del contesto in cui esse vivono, con le loro tradizioni, abitudini, relazioni. Noi con la statistica raccontiamo e misuriamo ciò che accade e, quando possibile, forniamo anche gli elementi per capirne il perché.
Il calo di occupazione e gli altri indici socioeconomici negativi confermano che l'attuale situazione esaspera fragilità pregresse?
Il mercato del lavoro è passato da una fase di faticosa tenuta, con qualche oscillazione congiunturale, a una di improvvisa e consistente caduta dell'occupazione e della partecipazione della forza lavoro. Nonostante gli interventi a supporto, ci sono categorie e settori che hanno subito una pesante riduzione. In particolare, i giovani hanno scontato il crollo degli avviamenti e gli inquadramenti generalmente meno garantiti, le donne la forte crisi nei settori in cui erano più presenti quali servizi, ristorazione e commercio. Sul fronte dell'occupazione femminile si avverte la mancanza drammatica di infrastrutture che consentano di conciliare famiglia e lavoro. Il bonus asili è stato un aiuto concreto, ma insufficiente a compensare le carenze strutturali, specie nel Mezzogiorno. Gli asili nido sono importanti per aiutare le donne e garantire ai bimbi, specie quelli di famiglie economicamente più fragili, un percorso educativo che li aiuti a colmare lo svantaggio.
Un altro effetto mediatico della pandemia è la "scomparsa" mediatica di fenomeni come le migrazioni cui prima lei accennava
“Chiodo scaccia chiodo”. Problemi nuovi e più incombenti finiscono col mettere in un angolo temi che erano centrali nel dibattito. In effetti però, come anticipavo, le migrazioni internazionali hanno conosciuto un ridimensionamento per effetto di Covid-19. Gli sbarchi sono stati meno pressanti, forse perché si percepiva che si sarebbe trovato un clima di maggiore resistenza, anche per l'innalzamento della soglia di paura verso chi viene da fuori.
La statistica talvolta fatica ad affermare la propria scientificità, venendo confusa con il "sondaggismo". Come far capire la differenza?
Sviluppando una cultura statistica. Formando i comunicatori, in primo luogo, per rendere le persone capaci di interpretare correttamente i dati. Occorre divulgare più e meglio gli aspetti tecnici e metodologici che aiutano a capire il messaggio e l'utilità dei numeri, a leggere gli indicatori statistici così come leggiamo correttamente la temperatura, la velocità, il valore di un titolo in borsa. Poi dovremmo distinguere “chi dice cosa”, l'autorevolezza delle fonti e la qualità dei dati diffusi ed elaborati. In questi mesi sono passati alla statistica personaggi, magari autorevoli nel loro campo, che hanno lanciato studi e analisi improbabili. Sarebbe opportuno aiutare i cittadini a riconoscere questi “dilettanti allo sbaraglio”.
In effetti la produzione di dati, percentuali, numeri, tendenze in questo periodo è proliferata in modo spesso confusionario
Come Istat non possiamo impedire questo profluvio di dati fantasiosi, quando va bene, o finanche strumentali rispetto a obiettivi di varia natura. Possiamo però presidiare alcuni ambiti e garantire un'informazione corretta, direi “certificata” su temi importanti. E possiamo interagire con partner qualificati per far sì che venga il più possibile valorizzata da soggetti competenti. Noi cerchiamo quotidianamente di combattere confusione e approssimazione fornendo riferimenti puntuali, trasparenti e chiari attraverso la stampa e numerosi prodotti di diffusione.
Può tracciare un bilancio della sua esperienza di presidente Istat, per quanto condizionato da questa fase eccezionale?
C'è stata una partenza affascinante, fino allo scorso marzo, per l'ambiente, la varietà d'iniziative, la continua necessità di cambiare tema. Poi, con la comparsa della pandemia, è seguita una fase diversamente stimolante: è stato un anno inconsueto, anche nella storia dell'Istat. Abbiamo da subito cercato di rispondere al forte bisogno di conoscenza operando in condizioni e ambiti diversi dal passato. Guidare l'Istituto in questa grande nuova sfida è stato faticoso ma anche gratificante.
Qual è la sua proiezione verso il futuro, stante il clima "depresso" che sembra prevalere?
La conoscenza della realtà presente e dei fattori che l'hanno determinata è la premessa per prospettare nuovi scenari. Non possediamo sfere di cristallo, ma dati oggettivi e metodi per valorizzarne le informazioni. Più che azzardare proiezioni, preferisco dire come ci stiamo muovendo per anticipare il futuro nel modo scientificamente più accurato: facendo riferimento a indicatori solidi, valutazioni e analisi che ci aiutino a individuare le tendenze, e anche a progetti e studi di statistica in grado di supportare i programmi di cui, euro alla mano, si parla diffusamente per far ripartire il Paese. Il clima depresso va e viene, l'esperienza ce lo insegna.
A proposito: la fiducia, su cui Istat lavora, è un valore sociale fondante, quanto è un rischio grave la sua mancanza?
Istat gode per fortuna di un forte accreditamento, frutto di una storia che sfiora il secolo: siamo nati nel 1926. La garanzia di una statistica ufficiale, qualificata e indipendente è un valore imprescindibile e un punto di orgoglio. Il mondo della scienza e i nostri utenti riconoscono questo importante ruolo di autorità garante, autonoma, mossa da spirito di servizio. In generale, occorrerebbe promuovere progetti di advocacy, coinvolgendo stakeholder, opinion leader e dipendenti come promotori e difensori di chi produce conoscenza; condividendo buone pratiche e informazioni. In questa direzione abbiamo avviato un progetto sperimentale. In una società che celebra l'importanza dell'informazione, ma non sempre ne garantisce la qualità, avere un'Istituzione di riferimento è un bene pubblico che non ha prezzo.