Focus: Cronaca

Per la secessione, una doccia scozzese

scozia
di Emanuele Grimaldi

Con due milioni di sì contro un milione e mezzo di no il Regno Unito, al motto di “better together”, sopravvive alla sfida dello Scottish National Party: prosegue così una storia che dura ormai da più di tre secoli. Ma è possibile un parallelo con le richieste di autonomia e indipendentismo del nostro Paese? Ne parliamo con Stelio Mangiameli, direttore dell'Istituto di studi sui sistemi regionali federali del Cnr

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Il risultato del recente referendum d’oltre Manica sull’indipendenza scozzese, il secondo dopo quello del 1982, fa tirare un sospiro di sollievo al primo ministro David Cameron e a tutto il Governo britannico: la Union Jack ha ancora ragione di esistere. Ma le ripercussioni di questa consultazione vanno ben oltre il circuito Londra-Edimburgo, fino a lambire la Spagna, con i separatisti catalani, e l’Italia, con gli autonomisti veneti.

È bene chiarire, tuttavia, che da noi un simile referendum è inammissibile ai sensi degli articoli 5 e 126 della Costituzione, che sanciscono rispettivamente l’unità e l’indivisibilità della Repubblica e lo scioglimento del Consiglio regionale per atti contrari alla carta fondamentale. “Una regione può ottenere il riconoscimento di uno statuto speciale per affrontare con più autonomia temi quali il fisco o l’agricoltura, ma non un referendum per ottenere l’uscita legale dalla Repubblica”, spiega il costituzionalista Stelio Mangiameli, direttore dell’Istituto di studi sui sistemi regionali federali (Issirfa) del Cnr di Roma.

Mentre nel caso britannico a fondare la richiesta indipendentista vi è soprattutto il senso di appartenenza a una nazione scozzese e non solo motivi di carattere economico, come ad esempio i proventi derivanti dall’estrazione del petrolio del Mare del Nord, nel nostro caso a giustificare tali richieste “c’è essenzialmente una critica al mal governo del Paese. Dal punto di vista fiscale, poi, le regioni del Nord pagano un tributo che reputano troppo alto, anche rispetto ai benefici che ricevono”, chiosa l’esperto.

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A complicare la situazione italiana il fatto che, alla questione aperta dalle regioni settentrionali, si affianchi quella mai risolta del Mezzogiorno. “L’autonomia siciliana è fallita, e altre due regioni meridionali, se fossero state delle aziende, avrebbero portato i libri contabili in tribunale già da tempo”, aggiunge il costituzionalista. “Così a un Nord che chiede meno Stato si sovrappone un Sud che chiede a Roma maggiori interventi”.

Un bivio emblematico, quello italiano, che avrebbe bisogno di risposte istituzionali precise, tali da permettere di affrontare la questione con serietà e metodo. Iniziando, ad esempio, da una profonda riflessione sull’attuale articolazione dei poteri tra governo centrale e regioni disciplinata dal Titolo V della Costituzione. “In effetti in questi ultimi 20 anni non si è dato il via a un vero regionalismo, ma solo a una bruttissima replica dello stato centrale da parte di ogni regione; replica che ha prodotto costosi apparati e forme di gestione di scarsa efficienza ed economicità”, prosegue Mangiameli. “L’attuale Ddl di revisione del Titolo V non appare poi adeguato a risolvere le questioni più controverse: riduzione delle autonomie locali e ridimensionamento delle funzioni delle Regioni nei poteri legislativi, amministrativi e finanziari”.

Il punto fondamentale del discorso appare sempre lo stesso. “Il ruolo principale dello Stato dovrebbe essere quello della tutela degli interessi nazionali in sede europea e internazionale”, conclude il ricercatore dell’Issirfa-Cnr. “Un rapporto tra centro e periferia che parta da una corretta perequazione territoriale e che implichi penetranti poteri di controllo sulle Regioni ma anche una loro 'autonomia responsabile’”.

Emanuele Grimaldi

Fonte: Stelio Mangiameli , Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie "Massimo Severo Giannini", Roma, tel. 06/49937700, email stelio.mangiameli@cnr.it