Paolo Virzì, regista per caso
Inizia la sua carriera come sceneggiatore, dopo aver frequentato a Roma il Centro sperimentale di cinematografia, nel 1994 passa dietro la macchina da presa per dirigere 'La bella vita', film di cui ha scritto anche la sceneggiatura e che conquista numerosi riconoscimenti. La sua ultima fatica è del 2018, 'Notti magiche', un pellicola che, come sue altre opere, fonde con equilibrio dramma e ironia. Lo abbiamo incontrato lo scorso 9 gennaio, al Cnr, a margine della giornata di presentazione dei risultati del progetto 'Coffee Breaks', nella quale è stato ospite
Figlio di madre livornese e di un carabiniere siciliano, Paolo Virzì trascorre l'infanzia a Torino per poi trasferirsi a Livorno; qui, durante l'adolescenza, recita, dirige e scrive testi per alcune filodrammatiche. Lascia poi la città toscana per trasferirsi a Roma, dove frequenta il Centro sperimentale di cinematografia e dove incontra Furio Scarpelli, che diviene la sua guida e il suo maestro e con il quale collabora alla stesura di alcune sceneggiature. Il suo debutto alla regia è del 1994, con 'La bella vita', pellicola che conquista Ciak d'oro, Nastro d'argento e David di Donatello e mostra da subito la capacità di Virzì di mescolare dramma e ironia. Con 'Ovosodo' (1997) vince il Leone d'argento a Venezia. Tanti i suoi film che ottengono riconoscimenti, da 'Caterina va in città' (2003) a 'Tutta la vita davanti' (2008), fino a 'La pazza gioia' (2016). Il suo ultimo film, 'Notti magiche', del 2018, è ambientato a Roma nell'estate dei mondiali di calcio del 1990 e, attraverso la narrazione delle indagini per la morte di un produttore cinematografico il cui corpo viene ritrovato nelle acque del Tevere, ripercorre in modo ironico e sentimentale lo splendore e le miserie di una stagione gloriosa del cinema italiano. Lo abbiamo incontrato al Cnr, a margine della giornata di presentazione dei risultati del progetto 'Coffee Breaks', nella quale è stato ospite e dove ha parlato del senso di frustrazione che coglie i lavoratori precari e sottoinquadrati.
Si avvicina all'attività artistica già nell'adolescenza scrivendo e dirigendo testi per il teatro: da dove nasce questa passione?
Ero un liceale che aveva voglia di raccontarsi, volevo esprimermi, ma non avevo ancora trovato le parole giuste per farlo. Era un'attività di tipo amatoriale, senza pretese. È vero però che in quegli anni il seme della mia formazione artistica conviveva con il desiderio di scappare dalla provincia, di trovare scenari diversi.
La sua carriera adulta inizia come sceneggiatore, cosa la spinge dietro la macchina da presa?
Sono venuto a Roma nel 1985 e percepivo questa città come un luogo spaventoso e affascinante insieme. Per chi, come me, veniva da un piccolo centro, era una sorta di bolgia infernale. Nella Capitale ho frequentato la scuola di cinema e il corso di sceneggiatura, perché volevo soprattutto scrivere come ho fatto per alcuni anni, lavorando come braccio destro di un grande sceneggiatore, Furio Scarpelli. Era un momento di crisi, molti grandi registi stavano morendo o ritirandosi dall'attività, si sentiva il bisogno di un ricambio generazionale. È in quegli anni che debuttano giovani come Francesca Archibugi, Giuseppe Tornatore, Carlo Mazzacurati. Il mio passaggio dietro la macchina da presa fu casuale: la produzione stava cercando un regista per uno dei copioni che avevo scritto e alla fine propose a me di girarlo. Così, mi sono trovato per la prima volta su un set, ero emozionato ma anche divertito e ho confessato alla troupe la mia inesperienza. Prima di allora avevo fatto solo da assistente a un mio cugino, fotografo di matrimoni! Avevo fatto qualche ripresa, immortalando il momento in cui gli sposi si scambiano le fedi nuziali. Forse non è un caso che il mio primo film da regista, 'La bella vita', inizi proprio con un matrimonio.
Le origini toscane hanno lasciato tracce evidenti nella sua poetica e nella sua opera. Che ne è dell'altra metà genetica, quella siciliana?
Un po' di Sicilia qua e là compare nelle mie opere, ad esempio in Tanino, anche la ragazza del call center di 'Tutta la vita davanti' è palermitana. Ma la sicilianità non è tanto nell'elemento biografico dei personaggi che racconto, è nella mia interiorità, nel mio rapporto controverso con la parte paterna della mia famiglia. Erano parenti erano litigiosi, c'erano situazioni di ricatti, tanti aspetti interessanti da un punto di vista romanzesco. La parte toscana della famiglia era diversa, si trattava di due realtà molto difformi: il nonno materno era un anarco-socialista, un antifascista purgato e bastonato; il nonno paterno invece era fascista, andò ad Adis Abeba durante la guerra coloniale e vì rimase a costruire strade, divenendo ricco. Quando Mussolini cadde i parenti palermitani finirono in disgrazia e iniziarono ad avere nostalgia di quella 'bella époque'.
La precarietà lavorativa (Tutta la vita davanti) o la difficoltà a svolgere l'attività che si ama (Tutti i santi giorni) sono temi importanti nei suoi film: è una scelta dettata dalla sua sensibilità sociale?
Viviamo in una stagione dai mutamenti rapidi e ormai 'Tutta la vita davanti' è un film di un'altra epoca. In quella pellicola del 2008 eravamo nel pieno dell'espansione commerciale, industriale, finanziaria, era un momento in cui aprivano nuove strutture come la Fiera di Roma appena inaugurata dove il film è girato. C'era una fiducia cieca nello sviluppo, con conseguenze non sempre positive: un accesso al mondo del lavoro spericolato, senza tutele, senza prospettive. Però nello stesso tempo c'era un ottimismo che non faceva presagire il disastro che sarebbe giunto di lì a poco. Ora l'atmosfera è opposta, c'è paura, sfiducia, chiusura. Siamo passati da un'Italia che assomigliava all'America a una che sembra guardare all'indietro. La massima aspirazione dei giovani ora è il posto fisso. Siamo, a mio parere, in un momento di regresso.
C'è spesso nei suoi personaggi - da Mirella di 'La bella vita', a Piero di 'Ovosodo', Anna di 'La prima cosa bella' - una presa di coscienza ma anche una perdita, come se la consapevolezza avesse un prezzo alto da pagare.
Tutti i percorsi di formazione implicano una conseguenza, conquistare qualcosa implica contemporaneamente perdere qualcosa: l'innocenza, il candore, il rapporto con le illusioni e con i sogni. Questo, in fondo, è un tema tipico dei romanzi di formazione, come quelli dickensiani. Però, soprattutto quando racconto personaggi che appartengono al mondo che non gode di privilegi, dei subalterni, mi piace immaginare che ci sia per loro se non una vera e propria riscossa, almeno un progresso, un'emancipazione. E cerco di narrarlo senza toni enfatici o trionfalistici.
Nei suoi film si parla anche di problemi psichici, come quelli delle protagoniste de 'La pazza gioia', e l'Alzheimer del protagonista maschile di 'Ella & John'
Sì, anche in 'Tutta la vita davanti' c'è una pazza. La psicopatologia, il disturbo mentale sono temi tipici del nostro tempo. Non bisogna dividere il mondo in pazzi e sani, perché non è così. Credo che la sofferenza mentale riguardi tutti, poi c'è chi ne rimane invalidato e chi, invece, riesce a vivere una vita normale, a inserirsi socialmente. Alla base di questo mio sguardo c'è insomma la convinzione che siamo tutti portatori di una qualche alterazione mentale: qualcuno, per esempio chi svolge una professione in campo artistico, riesce a trasformare questa anomalia in una forma di arricchimento, trasformando il 'disturbo' in talento. Nel mio caso, ad esempio, essere compulsivo nello scrivere, nel disegnare, nel ficcare il naso nei fatti degli altri è diventato uno strumento di lavoro. L'Alzheimer, in particolare è una malattia attuale, molto raccontata, forse perché molto diffusa a causa della maggiore longevità, oltre che per l'abuso di farmaci come le benzodiazepine, che accentuano i casi di perdita di memoria. Quello della demenza è un tema che mi attrae in quanto segno di debolezza, di fragilità e di regressione, un disturbo che in parte ci fa tornare bambini.
Come ha vissuto il passaggio dalla pellicola al cinema digitale?
Il cinema è di per sé un'innovazione tecnica, ma resta fondamentalmente un dispositivo, uno strumento come un elettrodomestico: di per sé è neutro, cambia poco che il supporto sia chimico o alfanumerico, perché la sostanza è un'altra, è narrativa. E si può narrare in tanti modi. Il primissimo è stato, pare, riunirsi intorno al fuoco in una caverna per raccontare un fatto accaduto, la cattura di un animale, una lotta contro una tribù rivale; dapprima si ricorreva a gesti, a suoni gutturali, poi a segni e pian piano ci si è raffinati, si sono cominciate a usare le parole, poi i versi. Il passaggio dalla pellicola al digitale è nulla rispetto ai tanti cambiamenti avvenuti nella pratica del narrare, dalla scrittura a mano a quella sul pc. Il senso è sempre lo stesso: raccontare la storia del destino di essere al mondo.
Che rapporto ha più in generale con la tecnologia?
Devo dire che la tecnologia mi piace, mi appassiona, mi diverte anche, ma non amo i social. Sono stato per un anno su Twitter, poi ho capito che era una maniera eccessiva di esporsi. A volte non riuscivo a trattenermi dal rispondere anche ai politici, innescando reazioni che il giorno seguente mi portavano sui giornali. Ho preferito quindi tirarmi fuori da questo meccanismo, per non complicarmi la vita. Se si ha voglia di esprimere le proprie idee e convinzioni ci sono altre modalità e spazi per farlo.
Ha mai pensato di scrivere o dirigere un film sul mondo della ricerca?
Non ci ho mai pensato finora, ma le confesso che mi piacerebbe
Quali sono i progetti per il futuro?
Prendermi cura di me, facendo yoga, nuotando… In questo momento non ho voglia di girare alcun film.