Vannevar Bush, una storia americana
ll pioniere della società e dell'economia fondate sulla conoscenza fu uno degli animatori di un dibattito che portò alla creazione del modello industriale con cui gli Usa, sin dal secolo scorso, hanno acquisito la leadership mondiale. La vicenda impone un confronto desolante con la realtà italiana
La storia di Vannevar Bush è nota, importante, emblematica per chiunque si occupi dei rapporti tra scienza e società. Bollati Boringhieri l’ha ricordata ripubblicando il 'Manifesto per la rinascita di una nazione’ a cui Pietro Greco premette quello che, riduttivamente, la copertina definisce un’introduzione e che è invece un vero e proprio saggio sul tema, assai stimolante. La vicenda di Bush permette infatti di riflettere su vari aspetti, a partire dalla differenza tra il nostro sistema politico-istituzionale e quello degli Stati Uniti, dove il Presidente guida un’“admistration” e non un “governement”, e ha quindi il “non intervento” come linea prevalente. Altro spunto interessante, quello sulla guerra come “fattore di accelerazione di molti processi di cambiamento e di innovazione”: un elemento che può non piacere ma che non si può sottacere.
Il nodo più stringente su cui la vicenda permette di riflettere è la relazione tra il sistema produttivo, l’innovazione tecnologica e la ricerca scientifica, che ormai viene continuamente ribadita: ultimo studio in merito, quello di William H. Press dell’American Association for the Advancement of Science (Aaas), che tanto per cambiare ci pone in coda alla classifica. Gli Usa, invece, pur con qualche incertezza e contraddizione, sono molto avanti, per lo meno dopo la crisi del 1929 e la scelta di un massiccio intervento in economia del Governo federale guidato da Roosevelt. Proprio con questo presidente, nel 1940, accetta di collaborare Vannevar Bush, uno dei pionieri dei computer analogici, che cinque anni più tardi pubblica il rapporto 'Science: The Endless Frontier’, nel quale si enuncia per l’appunto che una nazione senza una buona scienza avrà un’industria “lenta”.
Bush suggerisce la creazione di un sistema nazionale di ricerca (quello che in Italia non abbiamo neanche formalmente) con un manifesto in quindici punti che riguardano tra gli altri: innovazione costante, specializzazione produttiva, gioco di squadra, importanza della scienza di base, dipendenza dall’estero per la conoscenza, ruolo dell’industria privata e azione dello Stato, capitale umano. Temi, come si vede, di straordinaria attualità. Basti citare l’auspicio per la creazione di un’agenzia nazionale per la ricerca. O una frase dal rapporto come: “L’istruzione superiore in questo Paese è quasi sempre destinata a chi ha la possibilità economica di procurarsela”.
Bush non otterrà ascolto per ragioni meramente politiche, considerato tra l’altro il cambio che porta alla Casa Bianca il presidente Truman, ma avvierà un dibattito pubblico intorno al valore strategico della scienza così intenso che qualcosa, anzi molto, si muoverà ugualmente.
Truman pone il veto alla nascita di “un’agenzia federale governata in maniera del tutto indipendente dalla comunità scientifica” poiché essa “si sottrarrebbe al controllo del popolo, creando una crepa nel processo democratico”. Il presidente teme cioè la “torre d’avorio” tra ricercatori e società, nomina un comitato consultivo e si affida al sociologo ed economista John R. Steelman, che stila 'A Program for the Nation’, un rapporto molto diverso da quello di Bush, ma non per questo meno ricco e strutturato: tra l’altro vi si propone che la scienza fondamentale possa disporre di molti più fondi, 50 milioni di dollari dal primo anno raggiungendo quota 250 entro il 1957, contro i 122,5 milioni in cinque anni previsti da Bush come budget della National Science Foundation.
Truman fa proprio il rapporto Steelman e nel 1948 annuncia un investimento almeno dell’1% del Pil (200 miliardi di dollari) nello sviluppo della scienza e della tecnologia, contro una spesa dell’epoca di un miliardo di dollari. Cifre, parole e date che mettono i brividi, considerando l’un per cento circa che l’Italia investe in ricerca e sviluppo oggi (sommando pubblico e privato).
Il secondo dopoguerra non è però il momento migliore per un programma scientifico di lungo respiro e la National Science Foundation potrà nascere solo nel 1950. Ma la realtà non cammina solo per questi grandi progetti. La parziale sconfitta di Bush e Steelman, in realtà, è dovuta alla vittoria di un sistema più articolato di agenzie pubbliche che finanziano la ricerca: il Governo federale, ormai, spende in ricerca non militare oltre 600 milioni di dollari, cui bisogna aggiungere oltre 1,3 miliardi di dollari investiti per quella militare (nel frattempo gli americani sono impegnati sul fronte coreano), e la neonata Nsf si trova a gestire meno dello 0,2% di tali investimenti. “Il sistema d’innovazione degli Stati Uniti d’America ha definitivamente mutato aspetto”, conclude Greco, “le imprese hanno iniziato a investire in nuove tecnologie con la direzione e spesso con la generosa assistenza di Washington” e “sono nate una nuova società e una nuova economia, fondate sulla conoscenza”.
Perché da noi le cose vanno così diversamente? Perché stiamo ancora dibattendo del raggiungimento degli obiettivi di Lisbona? Una figura come Vannevar Bush in Italia non c’è stata, ma non perché siano mancate persone lungimiranti, “basti pensare a Vito Volterra (che ha fondato il Cnr)”, a Edoardo Amaldi o Antonio Ruberti, ricorda Greco. Ma “queste e altre persone non hanno trovato interlocutori politici all’altezza”, né imprenditori. La nostra industria ha prosperato “grazie al basso costo relativo del lavoro e alla possibilità di ricorrere di frequente alla cosiddetta 'svalutazione competitiva’ della lira”, una strategia opposta all’investimento in innovazione, che ha dato buoni frutti finché “con la nuova globalizzazione e l’irruzione sulla scena dell’industria mondiale” non è entrata in un declino che “può essere arrestato in due soli modi: o rincorrendo i Paesi poveri” oppure “passando da un modello di 'sviluppo senza ricerca’ a un modello di 'sviluppo fondato sulla conoscenza’”.
Il saggio conclude che “vale la pena tentare”. Ragioni per essere ottimisti, però, non ce ne sono molte.
Marco Ferrazzoli
titolo: Manifesto per la rinascita di una nazione
categoria: Saggi
autore/i: Bush Vannevar
editore: Bollati Boringhieri
pagine: 149
prezzo: € 12.00