Faccia a faccia

Edoardo Boncinelli, la vita come cambiamento

Edoardo Boncinelli
di Alessia Cosseddu

Scienziato, poeta, letterato e anche pittore. Fisico, biologo molecolare e neurobiologo. Lui stesso si definisce "esagerato". Tra scelte a volte repentine, nella vita non si è negato nulla. Genetista di chiara fama, per oltre vent'anni ha lavorato nel Laboratorio del Cnr fondato da Adriano Buzzati Traverso. Anche negli ultimi anni non ha smesso di lavorare e scrivere, nonostante il Parkinson che l'ha colpito e di cui parla nel suo ultimo libro “Essere vivi e basta”. Ovviamente, gli abbiamo chiesto anche dell'epidemia in corso…

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Scienziato, poeta, letterato e anche pittore. Lui stesso si definisce "esagerato", la moglie preferisce "bramoso". Tra scelte e cambiamenti anche repentini, Edoardo Boncinelli nella vita non si è negato nulla, riscuotendo successo e riconoscimenti in tutti gli ambiti in cui si è cimentato. Genetista di chiara fama, per più di vent'anni ha lavorato nel Laboratorio internazionale di genetica biofisica del Cnr di Napoli fondato da Adriano Buzzati Traverso: a lui e al suo gruppo si deve la scoperta dei geni omeotici nell'uomo (o geni hox). A Milano, ha poi diretto il Laboratorio di biologia molecolare presso l'Istituto San Raffaele e il Centro per lo studio della farmacologia cellulare e molecolare del Cnr. Ma anche negli ultimi anni Boncinelli non ha smesso di lavorare e scrivere, nonostante la malattia che l'ha colpito e di cui parla nel suo ultimo libro “Essere vivi e basta. Cronache dal limite” (Guanda): una “micrografia”, come la chiama, utile traccia per ripercorrere nell'intervista la sua intensa vita. Senza esonerarlo dalla “inevitabile” domanda sul Coronavirus.

Dalla fisica alla biologia, fino alle neuroscienze. Ci racconta il suo percorso di scienziato?

Sin da quando ero piccolo ho sempre sognato di fare lo scienziato. A quell'epoca c'era molta eccitazione per la "nuova fisica", anche se all'epoca ormai tanto nuova non era più. Quindi dopo il liceo, come previsto, mi sono iscritto e laureato in Fisica. Poi, però, mi sono accorto che anche in biologia c'era tanto da fare, e quindi, con una delle tante decisioni repentine della mia vita, mi sono trasferito da Firenze a Napoli per studiarla. Mi è andata bene, nel senso che mi sono subito inserito e, pur non avendo sostenuto nemmeno un esame di Biologia, ho riscosso un certo successo come biologo molecolare, anche se la testa è rimasta in gran parte quella di un fisico. Più avanti con gli anni, quando per tante ragioni il lavoro in laboratorio stava diminuendo, mi sono appassionato a quella che - secondo me - è la scienza più bella: la neurobiologia. E quindi mi sono formato in fretta e furia, come mio solito, una preparazione in merito: da qualcuno, devo dire, sono considerato una specie di punto di riferimento anche in questo campo.

A questa carriera ha aggiunto una passione e una produzione molto ricche come poeta, letterato, classicista: le “due culture” non esistono, quindi?

Io sono "bramoso", come dice mia moglie, ed esagerato: non mi sono mai negato nulla. Pensi che quando frequentavo l'Università ho anche dipinto su ceramica e diretto un film come regista. I classici mi sono sempre piaciuti, soprattutto i greci. È una passione che coltivavo nei ritagli di tempo poi, arrivato a cinquant'anni, chissà perché, mi sono deciso a tradurre tutti i lirici greci classici. Ci ho impiegato cinque anni, li ho tenuti nel cassetto per qualche anno ancora e poi li ho pubblicati. È un'attività che mi ha dato un enorme piacere, per quanto sembri che non abbia nulla a che fare con le altre mie attività.

È stato candidato al Nobel e certo non le sono mancati riconoscimenti scientifici e istituzionali. Che bilancio può trarre della sua vita professionale?

Di soddisfazione interiore ne ho tantissima, perché non ho mai fatto niente che non mi piacesse, un privilegio che è di pochi. E poi so di avere molti amici che mi stimano, anche all'estero. Da questo a dire che sono stato “riconosciuto”, ce ne passa: in Italia si appellano “scienziati” anche persone che non lo sono per niente, mentre conosco tanti scienziati veri di cui nessuno parla. Il maggiore riconoscimento, in fondo, sa da cosa mi è venuto? Dai libri e dalla divulgazione: quindi, se vogliamo, dalla cosa meno importante che ho fatto.

E della sua vita privata? 

Guardi, fino ai trent'anni è stata una tragedia. Dopo, cioè da quando ho conosciuto mia moglie, una cosa bellissima!

Nel suo ultimo libro racconta la sua malattia. Come mai oggi si parla con maggiore sincerità delle proprie fragilità? 

Non ho mai capito perché in passato fosse quasi un tabù parlare della propria malattia. Mi ricordo quando i tumori erano chiamati “la malattia incurabile”, c'era una sorta di pruderie che personalmente non mi ha mai toccato. Ultimamente, invece, fra reality e outing prevale la tendenza a dire i fatti propri in pubblico e qualcuno sulle sue disgrazie costruisce dei best seller. Il mio saggio in questo ambito è un po' particolare, perché del Parkinson non se ne parla molto e sono stato contattato dall'Associazione italiana proprio per contribuire a qualche iniziativa di sensibilizzazione. Io ho cercato di esprimere non solo l'oggettività della malattia ma anche la soggettività di chi ne soffre: la mia è una micro biografia, la possiamo definire una "micrografia".

Nel '68 si trasferì a Napoli e per più di vent'anni lavorò nel laboratorio del Cnr fondato da Buzzati Traverso. Ci viveva quindi nel '73 durante l'epidemia di colera: trova analogie con l'attuale emergenza Coronavirus, dal punto di vista sociale e scientifico?

Sono una persona che non crede alle disgrazie, nemmeno quando mi toccano. mi incuriosisco e dico "Vediamo che cosa è successo!" in senso positivo. È un dato caratteriale. Del colera comunque ricordo pochissimo, soprattutto che andai a fare il vaccino e mi rubarono la macchina, ricordo più il terremoto del 1980 e, tra l'altro, ho vissuto anche una guerra e un'alluvione. Qualcuno la definirebbe iella ma per me è solo una parte della vita. Naturalmente so che la malattia c'è e può essere gravissima, ma molto sta nel modo in cui la si affronta, individualmente e collettivamente. Il Coronavirus forse è partito in sordina e poi si è gonfiato troppo quando se ne sono appropriati i media, che ci bombardano continuamente. Si sa che bisogna stare attenti e adottare misure cautelative ma non bisogna seminare panico. In questi giorni per le strade di Milano non c'è quasi nessuno, il che francamente mi sembra esagerato. Certo, io sono vecchio e quindi non lo dovrei dire (ridacchia), visto che colpisce soprattutto anziani e malati.

Quindi è critico verso l'“infodemia” che sta caratterizzando l'attuale situazione?

Meglio che non mi faccia parlare dei mass media perché, pur essendo stato per oltre vent'anni editorialista del Corriere della sera, ho sempre avuto un atteggiamento molto critico rispetto a giornali e televisione. Non perché affermino il falso, quelle che oggi chiamiamo fake news, il vero problema è l'informazione mezza vera e mezza falsa, bisogna temere le “mezze notizie”. Se poi parliamo di scienza e medicina, mi pare che il giornalista scientifico in certe situazioni talvolta tenda a caricare un po' le tinte. Questo almeno è il mio parere: mi pare che viviamo in un marasma culturale, soprattutto in Italia ma non solo, in cui le parole stanno perdendo il loro significato, perché le usiamo troppo e a sproposito.

Ma come evitare l'eccesso di allarmismo assumendo le precauzioni dovute?

Sinceramente, non lo so: tutti hanno le ricette pronte, io no! Anche se sono anni che sbraito, da molto prima del Coronavirus, perché ci sia più serietà sui temi medici. Non ci scordiamo il caso Di Bella, non ci scordiamo la polemica contro i vaccini! Però temo che ci sia poco da fare, negli anni ho visto anzi le cose peggiorare dal punto di vista della diffusione di notizie! Io direi: seguite i medici, ascoltateli, anche se qualche volta sono un po' antipatici, e non date retta a nessun altro: soprattutto non prendete troppo sul serio le cose di cui si parla nei talk show.

Nel suo profilo Twitter pubblica aforismi. Che rapporto vive con i social e i new media?

Ho cominciato a usarli con Facebook, più di dieci anni fa. Su Twitter ho iniziato da relativamente poco e tutte le mattine pubblico i miei aforismi. Twitter fino a poco tempo fa concedeva 140 caratteri di lunghezza, adesso sono 280, ma a me bastavano quelli. Uno dei miei punti fermi è che si può dire in cinque minuti quello che si dice in un'ora: concretezza e brevità sono sempre un pregio. Facebook è diverso: c'è di tutto, è uno spaccato della società e, proprio per questo, checché se ne dica non va demonizzato. Ci sono gli odiatori e gli odiatori degli odiatori, quelli che parlano tanto per parlare e quelli che parlano solo di ciò di cui si intendono… È desolante, ma l'uomo è fatto così.

 

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