Il saggio di Naomi Oreskes porta in esergo una citazione di Ronald Reagan, un leader che oggi gode di miglior considerazione rispetto all’epoca in cui era in carica: “Fidarsi, ma verificare”. La scelta forse si spiega per comparazione, visto che poche pagine dopo l’autrice ricorda un dibattito del 2016 nel quale un altro presidente Usa, Donald Trump, contestò apertamente la posizione della medicina sui vaccini, riferendo l’esperienza di un suo conoscente al cui figlio era stato diagnosticato un disturbo autistico dopo la vaccinazione. La “madre” di tutte le bufale no vax, la responsabilità della quale è però della pubblicazione su Lancet di una ricerca fasulla, poi ritirata e ritrattata con tanto di scuse.
Veniamo così al titolo del libro, che pone una domanda non nuova ma di estrema attualità: “Perché fidarsi della scienza?”. La questione, come ci insegna la pandemia, è tutt’altro che risolta. Il consenso popolare e politico verso la ricerca scientifica è auspicabile ma non scontato, va meritato con la qualità del lavoro ma anche con una comunicazione all’altezza del ruolo sempre più impegnativo che le società complesse contemporanee assegnano a chi opera sulle frontiere della conoscenza.
Oreskes prende le mosse dall’empirismo logico e dalla celebre nozione di “falsificabilità” di Karl Popper, secondo cui a caratterizzare un’affermazione scientifica è la possibilità di essere confutata, più che quella di essere verificata. Un’idea di matrice liberale, tanto che Popper tentò di confutare il marxismo definendo il binomio “socialismo scientifico” come un ossimoro, e dalla quale consegue un cospicuo filone di studi: dalla definizione di Bruno Latour della scienza come “politica con altri mezzi” allo studio di Thomas Kuhn sulla rivoluzione copernicana, che identifica tra gli elementi portanti delle rivoluzioni scientifiche il lavoro in comunità; dalla Scuola di Edimburgo sugli “interessi” che agiscono nella scelta di una teoria, fino a Karin Knorr-Cetina sulla conoscenza scientifica come “invenzione” e allo storico John Zammito sulla “idolatria della scienza” imperante ai tempi del positivismo.
L’epistemologia, insomma, si basa su un processo autocritico profondo. “Come di recente ha evidenziato David Bloor […] se volessimo contrastare il relativismo con qualcosa dovremmo farlo non scegliendo l’oggettività – l’opposto della soggettività – né la verità, che è l’opposto della falsità, bensì l’assolutismo”. Uno studioso vicino a Popper, Paul Feyerabend, nella sua opera “Contro il metodo” negò addirittura l’esistenza di un metodo scientifico: “Gli scienziati utilizzavano da sempre una varietà di metodi con buoni risultati; qualsiasi tentativo di limitarli ne avrebbe ostacolato la creatività e impedito l’evoluzione della conoscenza scientifica”.
Secondo questo filone di pensiero, il saggio conclude che “l’idea di un metodo fisso o di una teoria fissa della razionalità poggia su una visione troppo ingenua dell’uomo e del suo ambiente sociale”. La storia suggerisce “che c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano” e “che non inibisce il progresso”, cioè: “qualsiasi cosa può andar bene”. Questo assunto getta però una luce diversa sulla “verità” e sul “confine tra scienza e non scienza”. A questo punto, conclude pessimisticamente Oreskes, “nulla ci assicura che gli scienziati saranno sempre nel giusto” ed errori, preconcetti e incompletezze “possono essere individuati e corretti” solo in un’ottica probabilistica.
titolo: Perché fidarsi della scienza?
categoria: Saggi
autore/i: Naomi Oreskes
editore: Bollati Boringhieri
pagine: 190
prezzo: 20,00