Atterraggi "estremi"

L'atterraggio è spesso la parte più delicata di un volo, ma in alcuni aeroporti diventa una vera e propria impresa per i piloti. Piste corte, condizioni meteorologiche avverse e ostacoli naturali rendono alcuni scali particolarmente impegnativi. Alcuni coinvolgono la nostra Aeronautica Militare. Ne parliamo con il Maggiore Andrea Testa, pilota della 46^ Brigata Aerea di Pisa
Nel mondo, esistono diversi aeroporti famosi per i loro atterraggi spettacolari, come quello di Paro in Bhutan e l'Aeroporto di Lukla in Nepal. Il primo è situato nel cuore dell'Himalaya ed è considerato uno dei più difficili al mondo. Circondato da montagne che superano i 5.500 metri, il suo avvicinamento richiede un’abilità straordinaria. I piloti che atterrano qui devono affidarsi esclusivamente alla navigazione visiva, dato che l'aeroporto non dispone di un sistema di avvicinamento strumentale. Se Paro è noto per la sua difficoltà, Lukla è spesso citato come uno degli aeroporti più pericolosi al mondo. È situato a 2.845 metri di altitudine e la pista di atterraggio è incredibilmente corta, appena 527 metri, con un’inclinazione del 11,7% che aiuta a frenare gli aerei in discesa. Questo significa che i piloti non hanno margine di errore: una volta iniziata la fase di atterraggio, devono completarla senza possibilità di riattaccare in caso di problemi.
Esistono però esempi di atterraggi su piste molto particolari che sono effettuati dai piloti della nostra Aeronautica Militare. Il primo esempio riguarda anche il Cnr. Si tratta dell’atterraggio sulla pista ghiacciata presso la stazione di ricerca del Programma nazionale di ricerche in Antartide (Pnra) Concordia. Abbiamo chiesto al Maggiore Andrea Testa, pilota della 46^ Brigata Aerea di Pisa, che ha partecipato alla 39ª spedizione italiana in Antartide nel 2023, quali caratteristiche e difficoltà presenta. “Atterrare con un C-130J su una pista che ‘non esiste’ ha un fascino particolare. Concordia è una baia e in quanto tale è costituita da acqua, che in inverno solidifica e che, dopo sopralluoghi e verifiche costanti, viene adibita a pista di atterraggio. L’atterraggio in sé è la parte più semplice, ma non lascia ampi margini di errore. Oltre a studiare l’orografia del terreno e le caratteristiche della pista, il fattore che più di tutti desta preoccupazione è il meteo. L’atterraggio dovrà effettuarsi in condizioni che noi chiamiamo VMC, ovvero Visual Meteorological Conditions, la visibilità e la copertura nuvolosa dovranno cioè essere tali da permetterci di volare ‘a vista’. Qui nascono le prime grosse difficoltà, il paesaggio è completamente bianco e molto spesso può creare delle illusioni ottiche”, spiega Testa. “Inoltre, l’Antartide è il continente più montuoso al mondo e la sua orografia cambia costantemente a causa delle formazioni di ghiaccio; è facile comprendere quanto le montagne siano un fattore molto pericoloso per il volo. Durante le 12 ore che precedono il decollo, lo scambio dati con i meteorologi di base a Mario Zucchelli, la stazione italiana in Antartide, ha una frequenza oraria e prosegue durante il volo. La distanza tra la Nuova Zelanda, aeroporto di partenza, e la base italiana di Concordia è di circa 7 ore e non permette di imbarcare abbastanza carburante per tornare indietro in caso di difficoltà, diventa quindi fondamentale individuare un punto di decisione, cosiddetto di non ritorno. Raggiunto questo limite l’equipaggio decide se proseguire o tornare indietro. Una volta atterrati sul ghiaccio, si cerca di usare i freni il meno possibile e di utilizzare la potenza dei motori che hanno anche la capacità di spingerci in retromarcia. Inoltre, il ghiaccio mal sopporta il peso del velivolo per lunghi periodi, va quindi spostato, anche solo di pochi metri, ogni 2-3 ore. E poi c’è il freddo con cui fare i conti, spesso infatti si raggiungono temperature anche di -20°C, e tali condizioni sono mal tollerate dagli impianti e dalle guarnizioni dell’aeroplano, che richiede quindi procedure e attenzioni particolari a cui pensa il personale della manutenzione”.

Non solo piste ghiacciate ma anche aeroporti “semi-preparati”, ovvero in terra battuta, in vari luoghi del mondo, tra cui l’Africa. “Non sono sempre estreme le condizioni generali, ma passare dai -35°C nelle zone più remote dell’Antartide ai +50°C del deserto fa il suo effetto e porta con sé considerazioni e valutazioni molto diverse”, chiarisce il maggiore. “Il C-27J e il C-130J che abbiamo in dotazione sono velivoli incredibilmente versatili, possono essere usati per una vasta tipologia di attività, dai trasporti sanitari di urgenza, all’aviolancio di uomini e materiale, al rifornimento in volo; hanno entrambi una grande manovrabilità e permettono di atterrare e decollare su piste particolarmente corte e quasi di fortuna, sottolineo quasi perché nulla viene lasciato al caso. Esistono dei reparti specializzati che devono valutare e certificare ogni pista sulla quale atterriamo, tutto viene fatto con estrema attenzione e professionalità. Il periodo dell’Afghanistan, inoltre, ci ha visto operare su piste davvero impervie, localizzate in mezzo a catene montuose altissime dove si trovano delle strisce di terra corte e strette che richiedono una elevata preparazione e attenzione. Talvolta erano addirittura strade principali di villaggi remoti, in cui il personale a terra interrompeva la circolazione a persone e veicoli - un po’ come potrebbe succedere a un passaggio a livello ferroviario - per permettere l’atterraggio dei velivoli. Qui, oltre alle difficoltà della pista e dell’orografia, vi era la problematica dell’alta quota e delle alte temperature. L’area rarefatta non è amica dei propulsori e porta a una riduzione, talvolta anche importante, di potenza disponibile riducendo ulteriormente i margini di errore”.
Insomma, situazioni e difficoltà molto diverse che richiedono un addestramento particolare. “L’addestramento nel nostro lavoro è fondamentale, pertanto ci accompagna quotidianamente. Per affrontare i climi glaciali dell’Antartide organizziamo delle sessioni addestrative su piste ghiacciate, ad esempio in Norvegia, dove affiniamo la nostra sensibilità sia nella fase di atterraggio che di ‘rullaggio’, ovvero di conduzione a terra del velivolo. Inoltre, l’orografia dei fiordi e la presenza di numerose zone disabitate ci permettono di effettuare voli addestrativi peculiari. Anche l’addestramento che sviluppiamo per atterrare su piste semi preparate risulta essere importantissimo, questo viene effettuato sia in Italia, su alcuni aeroporti appositamente individuati, sia all’Estero in contesti di addestramento multinazionale dove, oltre a migliorare le capacità dei nostri piloti, si confrontano le capacità nazionali con quelle dei paesi Partner”, continua Testa.
Tra i tanti atterraggi “estremi”, il Maggiore racconta di uno in particolare che porta nel cuore, sempre in Antartide, ma su una pista ancora più particolare, quella di Boulder Clay: “È una pista semi preparata che l'Aeronautica Militare ha progettato e realizzato da zero, in collaborazione con Enea, a supporto della base Zucchelli. È la prima e unica pista in terra del continente Antartico, un progetto tutto italiano, un vero orgoglio per il nostro Paese. Stretta e lunga, incastonata tra picchi rocciosi, la pista di Boulder Clay è particolarmente suggestiva e permette una maggiore sicurezza per gli equipaggi che vi andranno ad operare soprattutto nei mesi più caldi, poiché buona parte della baia di Terranova torna al suo stato liquido rendendo la pista in ghiaccio difficilmente utilizzabile. Dopo anni di lavoro meticoloso, la pista è stata collaudata proprio dai velivoli della 46^ Brigata Aerea. Posare le ruote su una striscia di atterraggio sapendo che nessuno l'ha fatto prima di te è un’emozione unica, qualcosa che ti riporta in qualche modo allo spirito straordinario dei pionieri del volo di inizio ’900. Certo, lo facciamo con tecnologie, un know how e un bagaglio di esperienze operative neanche immaginabili per quel tempo, ma l'adrenalina è la stessa”.