Focus: Cal

Raffreddare riscalda il Pianeta

Raffreddare riscalda il Pianeta
di Alessia Famengo

La refrigerazione è un processo che consuma energia e che contribuisce al riscaldamento della Terra. Oltre all'emissione di gas climalteranti, vengono infatti impiegati ed emessi in atmosfera fluidi refrigeranti, che generano un aumento significativo dell'effetto serra. La ricerca è attualmente focalizzata sull'individuazione di sostanze a basso impatto ambientale

 

Pubblicato il

I vaccini contro il Covid 19 hanno proposto una questione difficile, relativa al loro stoccaggio e alla loro distribuzione, poiché è necessario mantenerli a specifiche temperature (2°C-8°C per i vaccini a virus inattivato, da -70°C a -15°C per i vaccini a Rna o vettori virali modificati) dalla produzione dei sieri fino alla somministrazione. L'approvvigionamento e la distribuzione dei vaccini può quindi rivelarsi problematica per i Paesi dove la rete elettrica è carente (se non del tutto assente) e ostacolata magari anche dall'inadeguatezza di mezzi di trasporto e delle infrastrutture. La questione alla base è che per “fare freddo” e mantenerlo serve energia.

La ricerca sui sistemi di refrigerazione e sul mantenimento delle basse temperature, oltre a riguardare questioni di salute pubblica, è fondamentale per la limitazione del riscaldamento globale, e richiede la messa a punto di processi e dispositivi in grado di consumare quantità minori di energia, a emissioni serra contenute.

Le macchine frigorifere per la refrigerazione domestica, industriale e commerciale sono in grado di sottrarre il calore da una zona a temperatura più fredda per rilasciarlo a una a temperatura maggiore attraverso un ciclo frigorifero di compressione di un fluido che richiede lavoro e, quindi, una fonte di energia “esterna”. I fluidi cosiddetti “refrigeranti” devono essere in grado di condensare ed evaporare a determinate temperature, in maniera stabile e in sicurezza.

I famosi Cfc (clorofluorocarburi) e e Hcfc (idrofluoroclorocarburi), tra le cause del buco dell'ozono e banditi dal protocollo di Montreal nel 1987, sono stati ampiamente utilizzati come refrigeranti per via della loro ininfiammabilità e stabilità chimica e termica.

“I Cfc e gli Hcfc sono stati sostituiti con gli idrofluorocarburi (Hfc) e i perfluorocarburi (Pfc) non contenenti cloro, il responsabile della riduzione dello strato di ozono”, spiega Laura Fedele, ricercatrice dell'Istituto per le tecnologie della costruzione (Itc) del Cnr. “Questa decisione, tuttavia, ha fatto emergere un problema tutt'altro che secondario: gli attuali refrigeranti, una volta emessi in atmosfera, generano un significativo effetto serra”.

Come riportato nel Rapporto Ispra del 2018 “Studio sulle alternative e emissioni di Hfc” le emissioni di gas serra in Italia da Hfc sono aumentate da 0,4 Mt di CO2  eq nel 1990 a 12 Mt di CO2 eq nel 2015,  a causa, per lo più, del loro impiego nella refrigerazione e nel condizionamento (89% delle emissioni nel 2015) , oltre che del consumo negli aerosol medicali. La sostituzione dei vecchi Cfc e Hcfc giustifica solo in parte l'aumento dell'uso degli Hfc, sul quale pesano anche l'incremento dell'uso dell'aria condizionata e l'introduzione di nuovi standard costruttivi.

“La normativa F-Gas del 16 novembre 2018 attua il Regolamento Ue 517/2014 sui gas fluorati a effetto serra, imponendo limiti e restrizioni pesanti sull'utilizzo degli Hfc  negli impianti di condizionamento dell'aria e nella refrigerazione”, continua Fedele. “Dalla F-gas, tuttavia, sono escluse le applicazioni a bassa temperatura, come quelle necessarie per la conservazione dei vaccini a -70°C. La spinta data dall'emergenza sanitaria all'impiego di queste applicazioni impone un nuovo ragionamento anche sui refrigeranti impiegati e sulla necessità della loro sostituzione”.

È dunque necessario trovare delle alternative agli Hfc meno climalteranti. Ma come viene stimato quantitativamente l'effetto serra di questi fluidi? “Il coefficiente Gwp (Greenhouse-Warming Potential) indica il potenziale di effetto serra del gas rispetto all'anidride carbonica. Viene calcolato in una determinata finestra temporale come il rapporto tra l'effetto serra dovuto all'emissione di una unità di massa di refrigerante e quello relativo all'emissione di una unità di massa di CO2, per cui il Gwp della CO2 sarà 1. Ad esempio, il Gwp del composto R134a, un Hfc, è pari a 1.430: questo significa che immettere in atmosfera 1 kg di R134a equivale, in termini di effetto serra, a immettere 1,43 tonnellate di CO2”, chiarisce la ricercatrice del Cnr-Itc.

Il Gwp dipende dalla persistenza del composto in atmosfera, che a sua volta è legato alla sua stabilità chimica e alla capacità di assorbimento della radiazione infrarossa. Esistono indagini sperimentali per determinare la lista dei candidati meno climalteranti a basso Gwp.“Nel 1937, Thomas Midgley ha identificato gli atomi che possono comporre le molecole dei refrigeranti tra carbonio, azoto, ossigeno, idrogeno e alogeni quali fluoro, cloro, bromo e iodio (gli ultimi tre responsabili del buco dell'ozono)”, ricorda Fedele. “Secondo alcune indagini recenti, da un elenco iniziale di 56,203 composti si è arrivati a una lista di 62 candidati, considerando come criteri Gwp <200, bassa tossicità e infiammabilità, temperatura critica compresa tra 300 K e 550 K, stabilità chimica e buona efficienza. I fluidi naturali come ammoniaca, idrocarburi e anidride carbonica, ampiamenti conosciuti e utilizzati, rientrano nella lista ma non sono adatti a tutte le applicazioni. Fluidi sintetici come le idrofluoroolefine (Hfo), invece, sono particolarmente interessanti come sostituti degli Hfc”.

Per poter utilizzare una determinata sostanza in un ciclo di refrigerazione è necessario misurare in maniera precisa alcune proprietà termodinamiche e di trasporto termico. “Misure di pressione di saturazione, composizione all'equilibrio delle fasi vapore e liquida nelle miscele binarie di fluidi, densità del liquido compresso, conducibilità termica e calore specifico, ad esempio, permettono di valutare l'efficacia di un fluido come refrigerante”, precisa la ricercatrice.“Le Hfo sono buoni candidati a basso Gwp, ma presentano alcuni inconvenienti, tra i quali , l'infiammabilità, seppur moderata. Mescolarli ad altri refrigeranti non infiammabili come gli Hfc o la CO2 è una soluzione percorribile per limitare i pericoli associati e permetterebbe di aumentare il numero dei fluidi operativi disponibili e di adattarli meglio alle varie applicazioni”.

Sebbene l'individuazione di fluidi a basso Gwp sia un passaggio fondamentale per ridurre le emissioni serra nei sistemi refrigeranti, bisogna agire su più fronti. L'indice Gwp, infatti, tiene conto solo del ruolo del refrigerante: per fare “freddo”, c'è bisogno però di energia elettrica, con un'ulteriore impatto sull'effetto serra, visto che la generazione avviene principalmente nelle centrali termoelettriche, con conseguente rilascio di CO2 dai processi di combustione. “Un indice più completo dell'effetto serra generato dall'uso dei refrigeranti è il Tewi (Total Equivalent Warming Impact), che tiene conto dell'energia consumata dalla macchina frigorifera e della corrispondente emissione di anidride carbonica, della massa e del Gwp del refrigerante impiegato. Oltre che utilizzare nuovi fluidi refrigeranti a basso Gwp, è quindi necessario contenere le perdite negli impianti di refrigerazione, riciclare gli Hfc esistenti e migliorare l'efficienza energetica delle macchine frigorifere”, conclude Fedele.

Fonte: Laura Fedele, Istituto per le tecnologie della costruzione, tel. 049/8295831 , email fedele@itc.cnr.it -