Focus: Giovani e vecchi

Foreste senza storia

Foreste senza storia
di Luisa De Biagi

A causa della deforestazione e degli incendi, i boschi più antichi stanno diminuendo, sconvolgendo inevitabilmente i tempi e la dinamica della cosiddetta “rinnovazione”. A determinare questo squilibrio nell'ecosistema forestale sono prevalentemente l'impatto antropico e il riscaldamento globale, come spiega Giorgio Matteucci, direttore dell'Istituto per la bioeconomia del Cnr

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A causa della deforestazione e degli incendi le foreste primarie, ossia le più antiche, stanno diminuendo e questo sconvolge inevitabilmente l'equilibrio dell'ecosistema forestale, i tempi e la dinamica del ciclo vecchio/nuovo, la cosiddetta “rinnovazione”. “Nelle foreste naturali, la compresenza di alberi di decine o centinaia di anni di età con la 'rinnovazione', ossia le piccole piantine della stessa specie che li andranno a sostituire nel tempo, è un processo naturale”, spiega Giorgio Matteucci, direttore dell'Istituto per la bioeconomia (Ibe) del Cnr. “Questa compresenza può essere nella stessa porzione di foresta (struttura disetanea omogenea) o in una struttura varia, con zone di foresta adulta, matura o vetusta e zone in rinnovazione, magari in aperture di diversa dimensione (struttura disetanea a gruppi o aree). Le dinamiche e i tempi di passaggio tra vecchio e nuovo nelle foreste sono poi mediate dai 'disturbi', quei processi naturali che determinano aperture nella copertura forestale ovvero morìe di alberi per diverse cause. Schianti dovuti a vento e neve, morìe provocate da gelate o da siccità, annate con invasioni di insetti e patogeni, malattie, incendi”.

Un altro disturbo all'ecosistema forestale è quello causato dall'uomo nel corso di millenni, con lo sfruttamento agricolo, i pascoli e interventi dovuti a esigenze tecnico-industriali. “Fatte salve le aree tenute 'aperte' dai grandi erbivori e quelle in cui le condizioni climatiche non permettevano la presenza di foreste, prima che diventassimo agricoltori tutta l'Europa era coperta di boschi. In Italia, l'impatto dell'uomo è stato significativo già a partire da 2.000-2.400 anni fa”, continua il ricercatore. “L'uomo ha preso il legno dalle foreste e ha deforestato per ottenere aree agricole, pascoli e per soddisfare altre necessità: attrezzi, materiali da costruzione per le abitazioni e combustibile per riscaldamento, cucina e per processi industriali, per esempio fonderie”.

L'uomo si è quindi spesso sostituito e a volte aggiunto alle dinamiche naturali che determinavano il ciclo “vecchio-nuovo” causando un impatto antropico. “Le foreste venivano tagliate quando erano mature e al massimo della loro produttività (vecchio o adulto-maturo), riportandole in fase di rinnovazione o giovanile (nuovo). Questo, negli ultimi 200-250 anni in Europa e Nord America è quasi sempre avvenuto con sistemi di gestione codificati e spesso sostenibili, finalizzati alla perpetuità delle foreste”, sottolinea Matteucci. “Il fabbisogno di legname per i processi industriali e di costruzione è poi diminuiti all'avvio della Rivoluzione industriale, a seguito della disponibilità del petrolio e del carbone e poi del cemento, dell'acciaio e di altri materiali. Questo ha determinato per l'Europa e per il Nord America un recupero della superficie forestale (nuovo). Oggi in Italia abbiamo circa il doppio della superficie forestale dei primi del '900 (quasi 12 milioni di ettari, circa il 36% della superficie del Paese), anche in seguito all'intensificazione delle attività agricole (maggiori rese su minori superfici) e per l'abbandono delle aree 'marginali', situate spesso in montagna o collina”.

Nella dinamica “vecchio-nuovo”, la deforestazione per ottenere terreni agricoli, pascoli e per costruire si è quindi sostanzialmente conclusa nell'emisfero boreale intorno a metà dell''800, mentre nel '900 è cominciata in maniera sostanziale e grave nell'emisfero australe, soprattutto nell'area delle foreste tropicali sudamericane, asiatiche e anche africane. “Le foreste tropicali subiscono per lo più un'aggressione da incendi - per lo più causati dall'uomo -, soprattutto per produzioni agricole e zootecniche o anche per l'olio di palma nel sud-est asiatico. Anche le foreste boreali russe e canadesi sono soggette a incendi importanti, spesso per cause naturali (fulmini), a volte determinati dall'uomo. Nei casi in cui la foresta matura, vetusta o anche primaria, cioè mai toccata dall'uomo, incendiata non venga sostituita da altre tipologie di uso del suolo (agricoltura, pascolo, infrastrutture) partono le fasi di 'successione secondaria'. Sono processi più o meno lenti, che portano alla ricolonizzazione delle aree bruciate da parte della vegetazione, prima erbacea e poi arbustiva e arborea”, chiarisce il direttore del Cnr-Ibe. “Spesso i semi degli alberi che si trovano nel terreno (nuovo) delle stesse specie di alberi che costituivano la foresta presente (vecchia) germinano più facilmente dopo l'incendio: ci sono specie di pino adattate agli incendi che aprono le loro pigne proprio in seguito al passaggio del fuoco. Nelle foreste boreali, che a maturità sono costituite da conifere, l'incendio è la via di disturbo 'naturale' che determina la 'rinnovazione' del bosco, magari in cicli di 200-400 anni. Nelle fasi iniziali, dopo l'incendio, che possiamo quantificare in 80-100 anni, quindi un periodo lungo per i nostri tempi, nelle zone boreali i boschi maturi di conifere sono sostituiti da altre specie di latifoglie, quali betulle, pioppi, qualche quercia; queste specie sono più efficienti dei boschi di conifere nel riflettere parte della radiazione solare e quindi, in questa fase, hanno un'efficienza maggiore di regolazione del clima rispetto ai boschi originari. Questo anche perché in inverno sono privi di foglie e il manto innevato è direttamente esposto alla radiazione solare, riflettendone una gran parte (la neve ha un maggiore albedo della vegetazione, le latifoglie lo hanno maggiore delle conifere). Però le foreste in successione secondaria raggiungeranno la quantità di carbonio stoccato dalle foreste precedenti e la loro complessità strutturale solo in tempi lunghi, di 200-400 anni. Poi il ciclo ripartirà”.

Nel caso delle foreste tropicali, il processo di successione secondaria è più veloce, dato che le condizioni climatiche sono più favorevoli. “In questo caso però  i suoli sono spesso molto più poveri, perché tutta la sostanza organica viene riciclata molto velocemente, per cui il ritorno alle condizioni precedenti di biomassa e complessità strutturale è lunghissimo, se non quasi impossibile. Inoltre, la frammentazione degli habitat dovuta agli incendi può costituire un ulteriore fattore che limita le possibilità di ritorno alla situazione precedente”, specifica Matteucci.

In questi ultimi anni abbiamo assistito a incendi di decine di milioni di ettari di foreste in zone boreali, tropicali e in Australia, superfici infuocate in aumento anche a causa del riscaldamento globale. “Il riscaldamento globale rende le stagioni favorevoli agli incendi più lunghe e con la siccità determina una maggiore facilità di innesco e diffusione del fuoco. Quindi, oltre ad aver avuto un aumento delle superfici percorse da incendio, le condizioni di cambiamento climatico potrebbero portare a una maggior difficoltà e a un rallentamento dei processi di successione secondaria che nel tempo lungo potrebbero condurre a un ristabilimento della situazione precedente”, conclude l'esperto.

Dobbiamo quindi continuare a rispettare il territorio e favorirne i processi naturali, ma la lotta ai cambiamenti climatici resta un fattore determinante per ristabilire anche l'equilibrio dell'ecosistema forestale.

Fonte: Giorgio Matteucci, Istituto per la bioeconomia , email giorgio.matteucci@ibe.cnr.it -

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