Troppa scienza?
di M. F.La quantità di informazioni attualmente prodotta non è gestibile e causa effetti paradossali. Gianfranco Pacchioni si pone alcuni interrogativi, in un saggio 'senza sconti' sul ruolo del ricercatore nella società delle reti
Se da circa 5.000 anni attestiamo la presenza di persone che si dedicano alla conoscenza, è solo da un paio di secoli che tale attività ha assunto uno status professionale a tempo pieno e pochi si sarebbero immaginato lo straordinario sviluppo che essa ha assunto. Gianfranco Pacchioni si pone alcuni interrogativi al riguardo, in 'Scienza, quo vadis?, un saggio 'senza sconti' il cui punto di partenza è internet, che ha reso disponibile una quantità immensa di informazioni. Un'esplosione che però impone ritmi insostenibili per la ricerca scientifica, per quanto i suoi tempi si stiano riducendo: si pensi che la stampa a caratteri mobili arrivò 1.000 anni dopo l'invenzione della carta, mentre dalla pila di Alessandro Volta all'elettricità è passato circa un secolo e ancor meno è trascorso dai primi studi sulla risonanza magnetica nucleare al Nobel conferito nel 2003 a Paul C. Lauterbur e Peter Mansfield per la diagnostica mediante Magnetic resonance imaging.
Con le reti e con la logica perversa del publish or perish, però, la mole di pubblicazioni scientifiche è ormai ingestibile. Dall'inizio del XVIII secolo alla metà del XX sono state prodotte poche decine di migliaia di lavori scientifici; tra il 1910 e il 1960, con un repentino cambiamento di passo, ne sono usciti circa due milioni; oggi gli articoli pubblicati raddoppiano in neanche un decennio. Negli Stati Uniti si è passati da 3,2 autori per pubblicazione nel 1990 a 5,6 nel 2010 e un lavoro uscito nel 2015 su Physical Review Letter riporta un colophon con oltre 5.000 nomi di 344 istituzioni. Il primo autore dell'esperimento Atlas, G. Aad, nel 2015 ha pubblicato 115 lavori, uno ogni tre giorni. Sempre grazie a internet è esponenzialmente aumentato anche il numero di lavori in collaborazione internazionale: nel 1988 erano l'8%, nel 2009 il 23%, oggi oscilla tra il 27 e il 42%. L'autore, per rendere conto di quest'accelerazione, ricorre anche a ricordi personali, quali il viaggio a Berlino Est nel quale conobbe due giovani fisici con cui poi collaborò, Joachin Sauer e Angela Merkel… Del resto si pensi alla celebre foto di gruppo del congresso Solvay 1927, che tra gli altri ritrae Einstein e Niels Bohr, il padre dell'atomo moderno: oggi un congresso della American Physical Society conta circa 10.000 partecipanti.
Contatti continui e molti, forse troppi dati: eppure, paradossalmente, per gli scienziati spesso “non vale la pena di scavare e scoprire quanto già si sa: si fa prima a 'riscoprirlo' ex novo”, osserva Pacchioni. “Si assiste così sempre più spesso alla pubblicazione di lavori in cui vengono presentate come novità assolute cose che sono note da anni”. Gli studiosi vengono spinti a pubblicare velocemente e continuamente e i metodi che dovrebbero garantire la valutazione del sistema scientifico - la peer review, la valutazione tra pari, l'impact factor e l'indice H, che misurano le citazioni ottenute da una rivista e da uno scienziato - faticano a reggere il ritmo. Si ricordi peraltro che il lavoro sulla struttura elettronica di solidi e molecole di Pierre Hohenberg e Walter Kohn, al quale valse il premio Nobel, ebbe una sola citazione nei due anni successivi all'uscita su Physical Review. Per non parlare dei plagi e delle pratiche scorrette: le stime variano molto, i casi sono frequenti soprattutto in paesi scientificamente emergenti, ma se ne registrano di clamorosi come quello di Hendrik Schon, che ai Bell Laboratories nel solo 2001 pubblicò un lavoro ogni 9 giorni, tra cui 8 su Nature e Science. Finché una commissione di inchiesta scoprì 40 studi manipolati o mal condotti e lo licenziò. Pacchioni ricorda anche Andrew Wakefield, autore della sciagurata e truffaldina ricerca che attribuiva l'insorgenza dell'autismo alle vaccinazioni, invitato da Robert De Niro a presentare un documentario al Tribeca Film Festival di New York.
Il 'mercato' rischia di prevalere sulla scienza? Le riviste scientifiche sono nate nel 1665: nel 1964 il Science Citation Index ne censiva 600 con peer review, nel 2004 erano salite a 5.969 ma altre fonti stimavano circa 11.000 riviste accademiche già nel 1996, 14.694 nel 2001 e 28.100 nel 2012. Un business valutato in oltre 23 miliardi di dollari dove le riviste contano circa 10 miliardi e i libri circa 4, che occupa circa 140.000 addetti e collaboratori, con major come Elsevier, Thomson Reuters, Springer Nature. E poi c'è l'open access, che nell'intento di favorire lo scambio di informazioni apre le porte, anzi i portali della scienza in rete, dove si stima che nel 2013 sia apparso il 10% del totale degli articoli.
E i ricercatori, quanti sono? Una stima Unesco parlava di 7,1 milioni nel 2007, contro i 5,7 del 2002. Elsevier stimava 5,95 milioni di scienziati nel 2009. Secondo la National Academy Press nel 2013 erano circa 9.500.000, più il 1.400.000 degli Stati Uniti, per un totale 10.900.000: se la crescita continuasse al tasso attuale, nel 2050 sarebbero 35 milioni. Nel 1930 gli iscritti alle principali società scientifiche americane si aggiravano attorno ai 20.000: uno ogni 10.000 persone; nel 1960 il rapporto era sceso a uno ogni 3.000 e nel 2012 a uno ogni 700 circa. “Siamo troppi?”, si chiede Pacchioni senza perifrasi, pensando soprattutto a paesi come Cina o India. In un mondo tecnologico è ovvio che servano sempre più tecnici, ma nella ricerca fondamentale - avverte il saggio, stimolante anche se un po' frammentario e forse eccessivamente pessimista - dovrebbero imperare talento, genio, originalità: doti che non sono prerogativa diffusa. Quindi coloro che dopo il dottorato di ricerca vogliono intraprendere una carriera accademica, mettendosi a caccia di post-doc devono essere consci che solo uno di loro su 7,8 otterrà una posizione stabile e una carriera.
titolo: Scienza, quo vadis?
categoria: Saggi
autore/i: Pacchioni Gianfranco
editore: Il Mulino
pagine: 146
prezzo: € 11.00