Focus: Lingua e linguaggi

Lingue e dialetti nella grande varietà italiana

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di Katia Genovali

L'Italia è uno dei pochi Paesi europei a ospitare una varietà linguistica molto diversificata, a causa principalmente della sua storia, fatta di conquiste e commistioni di popoli. Claudia Soria dell'Istituto di linguistica computazionale “Antonio Zampolli” del Cnr ci aiuta a fare chiarezza sulla natura dei cosiddetti dialetti italiani, che in alcuni casi potrebbero definirsi in realtà vere e proprie lingue

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Che lingua si parla in Italia? In molti risponderebbero, senza mostrare incertezza, che in Italia si parla la lingua italiana. Tuttavia l'italiano, oggi lingua nativa di 55 milioni di persone, è parlata in modo esclusivo appena dal 46% degli italiani: ben il 49% parla infatti anche una delle lingue regionali del Paese, come si evince dal censimento Istat del 2006. Le varietà linguistiche in Italia sono circa una quarantina, cui vanno aggiunte le lingue parlate come effetto dell’immigrazione; singolarità che rende a tutti gli effetti la nostra penisola un piccolo hotspot di diversità linguistica in Europa. Per capire se si tratta di dialetti o vere e proprie lingue dobbiamo però fare un passo indietro e tornare agli esordi dell’Italia e dell’italiano.

“L'italiano, lingua ufficiale dell'amministrazione pubblica, degli affari, dell'istruzione e dei media, è una lingua romanza sviluppatasi dal dialetto toscano nel XIV secolo. Per secoli il toscano è stato parlato solo da una piccola parte della popolazione. Infatti, prima dell'unificazione d'Italia del 1861, il nostro Paese ospitava un’incredibile varietà di lingue parlate quotidianamente”, spiega Claudia Soria dell'Istituto di linguistica computazionale (Ilc) del Consiglio nazionale delle ricerche. “Dopo l'unificazione, il nuovo Stato adottò una politica linguistica aggressiva per imporre rapidamente l’italiano come lingua nazionale unica. Ciò ha portato alla marginalizzazione delle altre varietà linguistiche, limitandone l'uso a contesti familiari e affettivi, con conseguenze sulla loro vitalità e sulle loro prospettive di sopravvivenza”.

Ma quante lingue si parlano in Italia? Rispondere a questa domanda è tutt’altro che semplice, perché le risposte variano al variare dei punti di vista. Secondo Ethnologue, uno dei più importanti database sui linguaggi nel mondo, l'Italia ospita 36 lingue distinte. Questa classificazione tiene conto di due fattori: da una parte, delle differenze strutturali tra le varietà linguistiche; dall’altra, della possibilità di due persone che parlano varietà diverse di potersi comprendere. “Per esempio, una persona che parli in italiano e una persona che parli in una varietà campana o pugliese avranno molte difficoltà di comprensione reciproca, non molto dissimili da quelle che possono presentarsi tra una persona che parli italiano e una che parli catalano”, precisa l’esperta.

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Non è tuttavia così semplice distinguere una lingua da un dialetto, perché i criteri utilizzati per la catalogazione possono essere diversi da quelli appena visti. Molti studiosi italiani, per esempio, tendono a parlare di “dialetti” piuttosto che di lingue indipendenti, privilegiando il criterio cosiddetto di dipendenza comunicativa: un dialetto italiano è subordinato alla lingua italiana, nel senso che è usato in contesti spesso familiari e locali e per scopi limitati.

La parola “dialetto”, che tecnicamente significa “variante di una lingua”, in Italia viene spesso usata anche per indicare delle varietà linguistiche che non sono vere e proprie varianti della lingua italiana. Il siciliano, il piemontese, il friulano, il napoletano sono lingue evolute a partire dal latino in modo indipendente dall’italiano, non sono varianti dell’italiano e non sono dunque varianti della nostra lingua nazionale. Sono tuttavia considerate subordinate all’italiano perché, a differenza di quest’ultimo, non coprono tutti i contesti d’uso, cioè non sono utilizzate in ogni ambito della vita delle persone che le parlano.

“Proprio per accentuare questa subordinazione, la maggior parte degli studiosi definisce varietà come napoletano, siciliano, piemontese o veneto ‘dialetti d’Italia’ e non ‘dialetti dell'italiano’, riconoscendo che si tratta di sistemi linguistici autonomi derivati dal latino”, prosegue la ricercatrice. “Questo è l'approccio utilizzato anche dalla legislazione italiana, che riconosce soltanto 12 lingue minoritarie parlate in Italia, la maggior parte di matrice non latina. Le uniche varietà linguistiche neolatine a essere definite lingue sono il sardo, il friulano e il ladino, nonostante non siano strutturalmente più distanti dall'italiano rispetto al piemontese o al siciliano”.

Questo squilibrio nel riconoscimento ufficiale ha un impatto che trascende l’ambito accademico. Il mancato riconoscimento dello status di lingua di una varietà linguistica, infatti, ne mette a rischio la stessa sopravvivenza e può alimentare tensioni tra le comunità linguistiche. Inoltre, consente il perdurare nell'uso comune del termine “dialetto” per la maggior parte delle varietà linguistiche usate in Italia, quando invece, secondo criteri puramente linguistici, si tratta di vere e proprie lingue.
“Una ricerca condotta dal nostro Istituto ha mostrato che non riconoscere una varietà linguistica in modo ufficiale rafforza gli atteggiamenti negativi verso di essa. Chi parla lingue non riconosciute manifesta disillusione e scarse prospettive per il futuro della propria lingua, mentre invece lingue che godono di riconoscimento ufficiale producono un aumento dell'autostima e dell'orgoglio nelle popolazioni che le parlano”, conclude Soria. “Un riconoscimento più equo potrebbe rallentare il declino linguistico e rafforzare l'identità e la connessione culturale delle comunità linguistiche in Italia. Sarebbe pertanto auspicabile, come per altri settori, l’utilizzo di una terminologia più inclusiva per riferirsi alle varietà linguistiche, in modo da supportarne una percezione positiva e incoraggiare le persone a pensare in modo diverso alle lingue che fanno parte del loro repertorio linguistico, con sicurezza, orgoglio e autostima”. 

Fonte: Claudia Soria, Istituto di linguistica computazionale “Antonio Zampolli”, claudia.soria@ilc.cnr.it

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