Faccia a faccia: Mosaico

“Racconto un mosaico di storie, uniche e irripetibili”

Credits Claudio Sforza
di Francesca Gorini

C’è chi lo segue per l’intensa attività di scrittore, chi per le telecronache ciclistiche, dal Giro d’Italia al Tour de France: pubblici trasversali ugualmente affascinati dalla sua straordinaria capacità di raccontare storie. Stiamo parlando di Fabio Genovesi, che abbiamo incontrato al Festival della Comunicazione di Camogli 

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Se c’è una cosa che rende unico Fabio Genovesi nel panorama culturale italiano è la sua capacità di essere amato da pubblici trasversali, diversi per età e interessi. C’è chi lo segue per la sua attività di scrittore, chi lo ha conosciuto per le telecronache ciclistiche. Ma tutti sono ugualmente affascinati da un indiscutibile talento: trasformare le più piccole vicende in storie emozionanti.

Toscano di Forte dei Marmi, ha esordito nel 2008 con “Versilia rock city” (Transeuropa), cui sono seguiti “Esche vive” (Mondadori, 2011), “Chi manda le onde” (Mondadori, 2015), con il quale ha vinto la seconda edizione del Premio Strega Giovani, e “Il mare dove non si tocca” (Mondadori, 2018) vincitore del Premio Viareggio per la narrativa. Tra i romanzi più recenti, “Cadrò, sognando di volare” (Mondadori, 2020), “Il calamaro gigante” (Feltrinelli, 2021), dal quale è stato tratto lo spettacolo teatrale di Angela Finocchiaro e Bruno Stori, oggi alla sua seconda stagione, e “Oro Puro” (Mondadori, 2023). La sua attività editoriale si compone anche di racconti e saggi, come “Tutti primi sul traguardo del mio cuore” (Mondadori, 2013), dedicato a una delle sue più grandi passioni, il ciclismo. Un amore che lo ha portato, dal 2019, a svolgere l’attività televisiva di opinionista e commentatore del Giro d’Italia per la Rai, appuntamento a cui si è aggiunta, nel 2020, la competizione internazionale del Tour de France.

Tra i vari impegni, partecipa a numerosi eventi culturali: nell’estate 2024 è stato protagonista al Festival della Mente di Sarzana e al Festival della Comunicazione di Camogli, dove lo abbiamo incontrato.

Alle sue conferenze non è infrequente vedere tanti giovani che siedono accanto ai più adulti: come lo spiega? Cosa accomuna il suo pubblico?

E’ vero, ed è una cosa che mi riempie di gioia. Le conferenze, i momenti di incontro con il pubblico sono uno dei mezzi con i quali posso raccontare e condividere storie, ma non l’unico. I racconti, i romanzi, il teatro, la televisione, sono tutti formidabili strumenti che contribuiscono al “fascino del racconto”: questa per me è l’essenza, la cosa che mi interessa maggiormente trasmettere. E se il mio modo di raccontare permette di allargare la platea e riunire pubblici diversi, ne sono felice.

Al Festival di Camogli ha raccontato storie epiche legate al ciclismo, una delle sue più grandi passioni nonché, come ha più volte affermato, metafora della vita. Ma è più importante vincere la tappa o perdersi… a guardarsi intorno?

Beh, ovviamente perdersi. Trovo che in generale, nella nostra società, l’idea di “vincere” sia sopravvalutata. Preferisco pensare alla vita come a una danza più che a una corsa, senza l’ansia di dover arrivare primi. In fondo, cos’è una vittoria? Chi stabilisce quando siamo vincenti e quando no? Io sono dell’idea che non esistano veri fallimenti: spesso proprio inseguendo un traguardo arriviamo a qualcos’altro, qualcosa di totalmente inaspettato: ecco la vera vittoria! Se la vita è un oceano che dobbiamo attraversare, mi piace pensare di affrontarla allo stesso modo in cui si affronta il mare quando è agitato, cioè “assecondando le onde”, senza voler controllare qualcosa che è più grande di noi.

E qui veniamo al mare, un altro tema che permea molti suoi lavori. Quanto è forte questo legame, e in che modo la ispira?

Moltissimo, basti pensare che il mare è il posto in cui mi rifugio a scrivere quando l’estate finisce e la mia Forte dei Marmi ritorna a essere deserta e silenziosa. Il mare è enorme, eterno: il solo fatto di osservarlo ci ricorda costantemente la nostra piccolezza, la necessità di lasciare da parte il nostro ego per fare spazio a qualcosa di più grande, che va oltre le nostre esistenze. Un senso di ridimensionamento che, per me, è la “miccia” per iniziare a scrivere.

Camogli, Festival della Comunicazione 2024: Fabio Genovesi con Francesca Gorini dell'Ufficio stampa Cnr (Credits: Alberto De Martini)

Camogli, Festival della Comunicazione 2024: Fabio Genovesi con Francesca Gorini dell'Ufficio stampa Cnr (Credits: Alberto De Martini) 

Che studente era? Cosa voleva fare da grande?

Una frana nelle materie scientifiche, matematica, fisica… Anche in questo caso, ho imparato molto presto quali erano i miei limiti. A essere sincero da bambino avevo il sogno di fare il casellante autostradale, mi sembrava un lavoro bellissimo nella sua tranquillità, soprattutto in un posto di provincia come quello da cui provengo: li vedevo seduti nel casello, rilassati, con lo schermo davanti. Ma già da giovanissimo avevo interesse per le storie. e la voglia di raccontarle mi ha spinto prima a studiare filosofia, poi ad approfondire il mondo della scrittura. 

Segue la scienza, ne ha fiducia?

Ho grande stima per gli scienziati, soprattutto per quei personaggi visionari che con la loro curiosità, oltre che con le loro competenze, sono stati in grado di immaginare qualcosa di nuovo, di creativo. Come Goethe, che il mondo ricorda per la sua opera più grande, il "Faust", ma che ebbe anche interessi scientifici molteplici, fino a elaborare una teoria dei colori in aperta opposizione rispetto a quella newtoniana, e che poi si rivelò errata. Sono affascinato dai percorsi inediti della scienza, così come dai suoi “errori”, quando, cioè, si arriva a scoperte impensate, o impronosticabili, passando per le strade più disparate.

E con la tecnologia, invece, che rapporto ha? 

Scarso, per non dire pessimo. La verità è che sono un pigro e mi annoia dover continuamente imparare nuovi programmi, nuovi applicativi. Uso con parsimonia anche i social, sono attivo solo su Instagram. Ne riconosco l’utilità, ma a una condizione: che siano usati con sincerità.

Nel suo romanzo “Il calamaro gigante” scopriamo che questo animale esiste davvero, dopo secoli di leggende. Significa che non c’è più spazio per meravigliarsi?

Al contrario: sapere che esiste è inebriante. Ancora adesso molte persone mi fermano e, stupite, mi dicono “Ma allora esiste!”. Per me è la conferma che il mondo ci offrirà sempre qualcosa per cui meravigliarci, magari il nostro sguardo non è in grado di coglierlo subito, ma è la ragione per cui continuare a credere.

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