Si può essere altro
Nel 1975 il regista Milos Forman dirige il lungometraggio “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, che racconta la quotidianità vissuta dai degenti all’interno di un ospedale psichiatrico statunitense. Con Anna Lo Bue, neuropsichiatra e ricercatrice dell’Istituto di farmacologia traslazionale del Cnr, esploriamo il concetto dell’alienazione intesa come disturbo psichiatrico, provando a tracciare i confini che stabiliscono i parametri di normalità o di diversità di un individuo
Jack Nicholson interpreta Randle Patrick McMurphy, accusato di violenza sessuale e internato in una struttura psichiatrica dell’Oregon (Usa), nella quale porta scompiglio con un atteggiamento violento e antisociale. La sua presenza condiziona la vita degli altri internati e del personale impiegato nel nosocomio, fino al punto da essere lobotomizzato per placarne i comportamenti più estremi. Questa è la storia raccontata in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, film del 1975 del regista ceco-statunitense Milos Forman, che vinse cinque premi Oscar.
Laddove si parla di alienazione mentale, oggi definita anche malattia mentale o disturbo psichiatrico, ci si riferisce a un termine ampiamente utilizzato nel lessico medico dei primi anni del 1800 per caratterizzare l’infermità mentale e la compromissione delle facoltà psichiche. L’alienato vive in un mondo “altro”, alternativo, fuori dalle regole, dagli usi e dalle consuetudini propri della società. “Attualmente la classificazione dei disturbi mentali è basata su un numero statisticamente rilevante di evidenze cliniche. La letteratura scientifica definisce disturbo mentale un quadro clinico caratterizzato da difficoltà cognitive e di controllo delle emozioni e dei comportamenti, a cui si associa una significativa sofferenza e inabilità in ambito sociale, lavorativo e in altri importanti settori della vita di un individuo”, spiega Anna Lo Bue, neuropsichiatra e ricercatrice dell’Istituto di farmacologia traslazionale (Ift) del Cnr di Palermo. “Tuttavia, esiste un problema legato alla ‘soglia’ della malattia: non sempre esistono marcatori obiettivi che definiscano una patologia e il concetto stesso di malattia risente dei condizionamenti sociali e delle sofferenze proprie del soggetto. Si pensi che prima dell’avvento del Dsm, il manuale diagnostico dei disturbi mentali, la nomenclatura di queste patologie era basata sull’esperienza clinica dei medici, inevitabilmente influenzata dai condizionamenti ideologici, culturali e morali del curante”.
Da questo punto di vista, molteplici sono i fattori che condizionano l’individuo - interni ed esterni al soggetto - che rendono labile il confine tra normalità e patologia. “Il comportamento è influenzato dalla biologia, dalla psiche e dall’ambiente circostante e la personalità può mutare a seconda delle esperienze, che a loro volta incidono sul comportamento stesso. In più, i meccanismi fisiopatologici che caratterizzano le malattie neuropsichiatriche possono essere indotti, condizionati da fattori come lo stress, che stabilisce diversi livelli di interazione con il cervello”, prosegue la ricercatrice. “Ma la dimensione sociale e storica del comportamento umano costituisce un elemento imprescindibile: in ogni società il ‘normale’ è chi, seguendo le regole, attua un comportamento conformista che non va oltre i limiti imposti dal contesto nel quale vive, rappresentando un’immagine di sé che sia funzionale ai valori dominanti. In questo senso, l’equilibro psichico di un individuo è fortemente condizionato da quello sociale, tenendo a mente il fatto che i concetti di normalità e di pazzia, risentono del periodo storico, della cultura dominante e delle categorie sociali. Basti pensare che nell’antichità chi soffriva di gravi disturbi mentali aveva due sorti: l’esilio o la prigionia, in attesa della morte. Nella storia della psichiatria, le procedure di contenimento e la violenza usati nella gestione del paziente sono, purtroppo, nell’immaginario collettivo”.
Il film di Forman porta la cinepresa all’interno di una struttura psichiatrica statunitense, pochi anni prima della legge che in Italia impose la chiusura dei manicomi sul territorio nazionale e che determinò effetti molto articolati per quanto riguarda la trattazione delle malattie mentali. “Nel 1978, la cosiddetta legge Basaglia, che prende il nome dallo psichiatra che la ispirò, attuò un cambiamento epocale in campo medico-psichiatrico e, tentando di ridefinire il concetto di diversità, fu portatrice di una rivoluzione politica, filosofica e soprattutto sociale. L’obiettivo a più ampio spettro era quello di provare a ripensare la società in termini maggiormente inclusivi, riflettendo sulle esigenze di coloro che erano sempre stati rifiutati e marginalizzati. Oggi, a distanza di oltre 40 anni, ci sono ancora anomalie da sanare nel campo dell’assistenza psichiatrica, tra le quali la totale responsabilità dello specialista psichiatra nella determinazione dei trattamenti sanitari obbligatori (Tso) e l’assenza di strutture alternative di accoglienza, peraltro previste dalla normativa, nelle quali poter garantire una terapia prolungata per i casi che prevedano una gestione a lungo termine del paziente psicotico”, conclude la neuropsichiatra del Cnr-Ift.