Cinescienza: Conquiste scientifiche

Bomba o non bomba

Il protagonista del film, Cillian Murphy (Robert J. Oppenheimer), in una scena del film
di Danilo Santelli

È in programmazione nelle sale cinematografiche il film “Oppenheimer”, l’ultimo lungometraggio del regista Christopher Nolan. Si tratta della biografia di uno degli scienziati più contestati degli Stati Uniti, il fisico J. Robert Oppenheimer, colui che viene considerato il padre della bomba atomica. Con Pietro Calandra dell’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati del Cnr abbiamo parlato delle caratteristiche di questa arma dal punto di vista di un chimico e fisico

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L’utilizzo della bomba atomica per scopi bellici, dopo i catastrofici eventi accaduti in Giappone nel corso della Seconda guerra mondiale, è tornato a essere un tema d’attualità, in considerazione del potenziale allarme nucleare che proviene dal conflitto russo-ucraino in corso. Nel film “Oppenheimer”, ora nei cinema, il regista americano Christopher Nolan ha voluto raccontare la prima realizzazione di questo ordigno attraverso la storia professionale, e soprattutto personale, di colui che l’ha ideato, il newyorkese Julius Robert Oppenheimer, il fisico che fu a capo del progetto Manhattan, con il quale gli USA costituirono il primo programma atomico durante la guerra mondiale del 1939-1945. Nella pellicola viene raccontata la vita del fisico americano, che a valle dei fatti di Hiroshima e Nagasaki venne marginalizzato sul piano scientifico per le sue passate simpatie politiche. Successivamente la sua immagine fu riabilitata dal presidente statunitense Johnson, che gli consegnò il Premio Enrico Fermi, pochi anni prima della sua morte.

Locandina del film

“Le armi nucleari si basano sul principio della fissione, che è un processo indotto attraverso il quale particolari atomi vengono scissi in elementi più leggeri con liberazione di vari prodotti, tra i quali energia. Per attuarlo, è necessario utilizzare nuclei che abbiano, per l’appunto, caratteristiche di fissilità, cioè che possano innescare una reazione a catena. Uno dei pochi elementi con questa caratteristica è l’uranio, un metallo presente in alcuni minerali naturali, il cui isotopo fissile, ovvero capace di sviluppare reazione di fissione a catena, è il 235”, spiega Pietro Calandra, fisico e chimico dell’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati (Ismn) del Cnr. “Dato che l’isotopo 235 costituisce meno dell’1% di tutti gli isotopi di uranio, per questo utilizzo si rende necessario un procedimento, cosiddetto di arricchimento, per concentrare il numero di isotopi adatti alla fissione. Questo processo, piuttosto complesso, viene realizzato attraverso tecniche diverse (ad esempio la centrifugazione, che separa i materiali in base alla loro densità, dividendo i nuclei più leggeri da quelli più pesanti, o mediante luce laser, oppure attraverso la ionizzazione e l’immissione in un campo magnetico) e permette di arrivare alla massa critica, cioè quella sufficiente a innescare la fissione a catena. Si parla di massa supercritica quando l’arricchimento produce valori superiori alla soglia minima, mentre viene detta subcritica quando i valori sono sotto soglia. In questo contesto, per evitare che il neutrone possa sfuggire dalla massa subcritica, quest’ ultima viene ricoperta con il berillio, un elemento chimico che risulta discretamente riflettente nei confronti dei neutroni, le particelle responsabili del processo di fissione. Questo, riducendo le masse subcritiche, permette di poter lavorare con meno materiale fissile”.

Seppure la fisica nucleare giochi un ruolo predominante in questo ambito scientifico, è interessante notare come la chimica degli ordigni atomici sia altrettanto importante, non soltanto sul piano dell’arricchimento dell’uranio e, più in generale, dell’ingegnerizzazione dei materiali e dei dispositivi, ma anche per quanto riguarda gli effetti della chain reaction nucleare. “La reazione che avviene nella fissione nucleare innesca una sorta di effetto domino incontrollabile, nel quale vengono coinvolti gli isotopi dell’uranio, liberando una quantità di energia molto elevata. Un nucleo, spaccandosi, svincola le particelle al suo interno, principalmente neutroni, che a loro volta colpiscono altri nuclei che si dividono rilasciando altre particelle e così via, in una reazione a catena”, prosegue Calandra. “Questo processo viene attivato da un trigger, un innesco, di solito realizzato con esplosivi convenzionali; l’esplosione ha l’effetto di avvicinare e agglomerare anche le masse subcritiche, rendendole di fatto un agglomerato di massa supercritica. In questa situazione, i neutroni liberati si trovano in un ambiente di grande densità nel quale non potranno che scontrarsi con altri neutroni, determinando un effetto a catena”.

Queste esplosioni provocano una serie di effetti diversi tra loro, che causano danni per molti chilometri. “L’irradiazione dei raggi gamma produce un riscaldamento notevole, il quale a sua volta innesca un’espansione improvvisa dei gas e quindi un aumento della pressione locale e, a catena, l’onda d’urto dell’esplosione comporta lo spostamento di quanto si trovi sul luogo dell’evento: tutti questi processi, già di per sé distruttivi, sommandosi producono esiti devastanti. Mentre gli esplosivi convenzionali implicano energie chimiche dell’ordine delle decine di elettronvolt, nel caso delle esplosioni nucleari l’energia coinvolta è di milioni di elettronvolt. Per confronto, per i raggi UV, che sappiano essere pericolosi e dannosi per la nostra pelle, si parla ‘solamente’ di qualche elettronvolt”, conclude il ricercatore del Cnr-Ismn.

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