Il ricercatore è un ricercato
Franco Ferrarotti in un dialogo che sintetizza una vita di scrittura, lettura e studio. E cinque “professioni” diverse, tra le quali l’insegnamento, con la prima cattedra universitaria in Italia di sociologia. “Viviamo in un’epoca isomorfica, che standardizza. E veloce, in contraddizione con la lentezza del cervello. La conoscenza delle masse solitarie è doxa, opinione, mentre ciò che conta è l’epistème”, dice: “Credo che la scienza debba essere inferma, se non vuole diventare dogma e rinnegare se stessa”. Tra i suoi molti “modi di dire”, la poesia: “Senza non sarei sopravvissuto"
“Confermo, senza la poesia e la musica non sarei sopravvissuto”. Franco Ferrarotti comincia con questa dichiarazione, decisa com’è nel suo carattere, il dialogo che si svolge in uno studio prevedibilmente sommerso di libri, tra i quali le sue ultime raccolte di versi, “L’epifania della bassa marea” e “Un filo d’erba per figlio”, entrambe edite da Gattomerlino. Questo studioso coltiva l’amore per la scrittura, la lettura e lo studio in modo inflessibile da circa 80 anni, durante i quali lo ha distribuito in cinque “professioni” diverse, tra le quali la principale era e resta l’insegnamento. Attività che Ferrarotti ha svolto ottenendo la prima cattedra universitaria in Italia di sociologia, disciplina di cui va pertanto considerato non solo il decano, ma in qualche modo l’“inventore” o almeno l’“importatore”. Ora che si avvicina al secolo di età, sciorina risposte, ricordi e riflessioni con una lucidità e una memoria impressionanti.
La poesia è una passione matura o giovanile?
La coltivo da sempre ed è uno dei regali della mia malattia infantile, che mi costringeva a stare a casa, in solitudine, mentre il resto della famiglia andava a lavorare nei campi, nel Vercellese. È sempre stata una compagnia fedele, ma oggi mi è ancor più essenziale perché viviamo in un’epoca “isomorfica”, che standardizza i comportamenti di tutti.
Un’epoca in cui lei sostiene trionfi la “bulimia” dei mass media.
Un’epoca ben lungi dalla liquidità che qualcuno aveva immaginato, che è dominata dall’audiovisivo, tecnica che ha soppiantato la lettura. Per carità, i libri si stampano ancora, però tutti scrivono e nessuno legge.
Non teme di apparire come un nostalgico dell’analogico?
Lo sono. Sono legato a un tempo testuale, in cui la lettura esigeva il silenzio e la solitudine. La logica dell’audiovisivo e dell’elettronica invece è rapida, veloce, in contraddizione con la lentezza del nostro cervello. È un’ondata travolgente, torrentizia, planetaria, che non concede il tempo della concentrazione e agisce con il potere ipnotico dell’emotività. Vive l’immediato, ignora l’antefatto, nega l’esperienza interiore ed esteriorizza tutto nei file.
Una società di massa o individualista, per usare una classica distinzione sociologica? Difficile dirlo, entrambe le cose sembrano vere.
È questo il paradosso delle società moderne. La rapidità e l’autoreferenzialità determinano l’impressione di una conoscenza partecipata, da parte però di “masse solitarie”, in cui la compresenza è basata sulla standardizzazione, che sono composte da individui abbandonati a loro stessi.
Come vive il rapporto con il tempo attuale, invece, in riferimento alla sua età, splendidamente portata? Viene da chiederle a cosa si debba questa sua forma eccezionale.
Debbo tutto alla malattia infantile che, come dicevo, mi ha risparmiato il duro lavoro dei campi al quale erano soggetti mio padre e i miei fratelli. Io sono rimasto a casa, così ho potuto leggere molto ma parlare poco, poiché convivevo con i bisnonni che non mi rivolgevano la parola. Ho cominciato a parlare a cinque anni e tutti erano convinti che fossi ritardato. Considero la condizione della solitudine e della meditazione, a costo di apparire ritardati, molto vantaggiosa. Oggi invece, come dicevo, si vive in una situazione di coinvolgimento ossessivo che stravolge e distorce, orientando tutto verso la pragmatizzazione del pensiero.
Lei come sociologo è uno studioso della realtà: perché la preoccupa l’orientamento dello studio agli aspetti e ai fini concreti?
Perché occorre pensare solo per pensare, bisogna ruminare come bovini nel prato, e quest’esperienza è ormai sconosciuta.
Anche nella produzione scientifica? Il publish or perish impedisce di fare ricerca curiosity driven, per usare le espressioni dei ricercatori?
Thomas Edison diceva che la ricerca e la scoperta sono fatte al 98% di perspiration, cioè di sudore, e al 2% di inspiration. Sì, la ricerca deve avere tempi lunghi e non essere finalizzata a risultati pratici immediati. Pensiamo ad Archimede che, dopo aver aiutato Siracusa in guerra con gli specchi ustori, distrugge i propri lavori perché non cadano in mano dei “politici” dell’epoca. E a via Panisperna, a Enrico Fermi che ottiene i risultati della prima fissione dell’atomo nella palestra dell’Università di Chicago, mandando a Roosevelt un telegramma che, vado a memoria, dice: “l’italiano è arrivato in porto”. E pensiamo alla big science di oggi, che però significa anche big money e big government.
Lei ricorda di avere svolto cinque professioni: traduttore, consulente, diplomatico, parlamentare, professore. Quale sente più sua?
Quella di professore, che ho condotto con una testardaggine adolescenziale. Avevo non più di 17-18 anni quando ebbi l’intuizione di una disciplina che fosse meno distaccata dalla realtà rispetto all’idealismo crociano e gentiliano, ma anche meno matematica dell’economia politica. Direi che la nascita della sociologia avviene contro gli idealismi di destra e di sinistra, considerato quanto in Italia anche il marxismo ne fosse imbevuto.
E come giudica la sociologia odierna?
La sociologia è una disciplina ibrida, tra filosofia e storia, non si identifica in nessuna di esse. Oggi invece la vedo ridotta a mera ingegneria sociale, condotta in base alle richieste del mercato, tecnicizzata. Inoltre la sociologia ha come oggetto la persona, nel suo processo ermeneutico il ricercatore è anche un “ricercato”. Non la si può svolgere, come accade, concependo le persone come sottoposti indagati o addirittura indiziati. Serve un rapporto fiduciario, altrimenti diventa altro: sondaggio d’opinione, statistica sociale o giornalismo investigativo, cose rispettabili ma diverse. Oppure demografia, quella per la quale Corrado Gini rendicontava a Mussolini l’andamento delle nascite, nella convinzione errata che fosse il numero a fare la forza, con l’obiettivo di raggiungere gli “otto milioni di baionette”.
Oggi è ancora possibile “creare” una nuova scienza, come ha fatto lei?
Ho affermato il carattere unico della sociologia, avendo ottenuto la prima cattedra bandita in Italia. Me ne riconosco il merito, ma ovviamente lo devo alle condizioni in cui ho potuto realizzare questo obiettivo: l’esperienza in America, la mia attività come deputato indipendente, la cultura cattolica italiana.
E lei pensa sia ancora utile alla comprensione di una società complessa come quella odierna?
Croce ha definito la sociologia una “scienza inferma”, ma io credo che la scienza debba essere inferma, se non vuole diventare dogma e rinnegare se stessa. E sì, sono convinto che sia necessaria per comprendere una complessità che costringe a una crudele consapevolezza. Bisogna tornare a Platone, affermare l’epistème contro la doxa, la conoscenza contro l’opinione.